giovedì 26 settembre 2019
Domani a Venezia la BiennaIe Musica consegna al compositore inglese il Leone d’oro alla carriera: «La musica non si sviluppa su linee rette. A spingerla è l’attrito tra influenze inconciliabili»
Il compositore e direttore d’orchestra inglese George Benjamin (Matthew Lloyd)

Il compositore e direttore d’orchestra inglese George Benjamin (Matthew Lloyd)

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Salutato al suo apparire giovanissimo come un talento straordinario – complice anche l’investitura da parte di Olivier Messiaen che lo ebbe studente appena adolescente negli anni ’70 – George Benjamin (Londra, 1960) si è affermato nel tempo come una delle voci più importanti della musica contemporanea, fino alla conferma con l’opera Written on Skin, partitura raffinatissima salutata da un successo internazionale (in Italia è arrivata nel 2016 a Bolzano: a ennesima riprova di come i piccoli teatri nella nostra penisola abbiano spesso più idee e antenne accese rispetto alle grandi fondazioni).

Written on Skin, eseguita in forma di concerto dall’Orchestra sinfonica nazionale della Rai diretta da Clemens Schuldt, è anche la partitura scelta per festeggiare, domani a Venezia, la consegna a Benjamin del Leone d’oro alla carriera in occasione dell’apertura della 63ª edizione di Biennale Musica. Il libretto di Martin Crimp si basa sulla leggenda del trovatore provenzale Guillaume de Cabestanh, che qui diventa semplicemente “the Boy”, un giovane artista, senza nome: il ricco Protettore gli commissiona le miniature di un manoscritto sulla sua famiglia. Il ragazzo e la moglie del Protettore, Agnès, sono attratti l’uno dall’altra: travolto dalla gelosia l’uomo uccide il ragazzo e costringe Agnès a mangiarne il cuore. In parallelo lungo tutta l’opera tre Angeli commentano l’azione dal punto di vista dei nostri giorni, gettando uno sguardo tragico e apocalittico sull’intera storia umana. Ma, osserva Benjamin, «non si deve commettere l’errore di confondere l’artista con la sua creazione! La nostra ambizione è sempre stata quella di aprire un mondo e non dettare un semplice messaggio».

Pierre Boulez ha detto: «Nella mia vita ho sempre voluto essere moderno».Vale anche per lei? E cosa significa “essere moderno”?

«Sì, ma a modo mio, evitando tendenze alla moda o una definizione restrittiva di ciò che potrebbe essere quella modernità. Ma essere veramente creativi significa cercare ed esplorare, e se si ha la fortuna di trovare qualcosa di fresco, indipendente e nuovo, allora questo è “essere moderni”».

Alcune delle novità più interessanti degli ultimi 40-50 anni sono arrivate da fuori Europa (penso ad esempio al minimalismo americano). Oggi si può parlare ancora di una musica “europea”?

«Durante la mia vita la portata della musica classica occidentale si è estesa sempre più in tutto il mondo, ma è stata senza dubbio un’invenzione europea, quindi avrà sempre radici europee. Sembra che qui ci siano più giovani compositori che mai e sicuramente tra di loro ci sarà più di una manciata di voci emozionanti e di spicco. Indipendentemente dagli enormi talenti che emergono dagli Stati Uniti, dalla Corea, dall’Australia o dall’Argentina, ho piena fiducia nel fatto che la storia sia tutt’altro che finita sulle nostre coste».

Come ci si confronta con il problema di una tradizione (una tradizione del moderno, intendo) e dell’appartenenza a una linea storica, così preminente nel modo di pensare europeo?

«La tradizione in sé non mi interessa – tutto ciò che mi accende è la musica che amo e, al di là di questo, la musica che voglio scrivere, eseguire e sentire. Io appartengo a una pletora di linee storiche, come tutti noi. Ed è l’attrito tra influenze inconciliabili che spinge l’evoluzione della musica, perennemente capricciosa, che non si sviluppa mai su linee rette o prevedibili».

Esiste ormai un “codice operistico”, una serie di convenzioni riconoscibili nell’opera moderna e contemporanea? Se sì, come si trattano?

«Ci possono essere “codici” o forse, più precisamente, manierismi, ma ho cercato di evitarli. Infatti, negli anni che hanno preceduto la mia prima partitura teatrale, mi sono sentito obbligato a riconsiderare dai fondamenti alcune questioni – in particolare la scrittura vocale e l’intreccio armonico tra palcoscenico e buca – mentre cercavo un approccio alla narrazione che potesse sembrare autentico nel XXI secolo. Volevo scrivere un’opera fin da quando ero adolescente, ma mi ci sono voluti decenni per trovare una tecnica sufficiente, forgiare il linguaggio giusto e, soprattutto, trovare il collaboratore ideale – che, per mia grande fortuna, ho trovato in Martin Crimp».

In Written on Skin c’è un passato immerso nella fabula – e quindi ammantato del mito – e insieme la visione vertiginosa degli Angeli che commentano dal presente. Questa separazione e coesistenza di tempi diversi si riflette nella struttura e nella scrittura musicale?

«Se in termini di caratterizzazione della materia e del modellamento della forma, allora sì: spero che i diversi mondi del mio pezzo siano catturati con chiarezza, sebbene senza essere didattici. Ma in termini di collage di stili o pastiche, assolutamente no; ciò sarebbe contrario alla mia natura musicale. Tuttavia, l’isoritmo medievale è presente, profondamente sommerso, in alcune scene dell’opera, e qua e là, per colore localizzato, ci sono piccoli echi di gestalt intervallare medievale, in particolare nelle linee vocali».

Per il personaggio dell’artista ha scelto la voce del controtenore. Perché? Cosa la affascina di questa vocalità?

«Mi piace molto la voce da controtenore e mi sembra anche un mezzo musicale fresco che ha urgente bisogno di un nuovo repertorio. In Written on Skin, soprattutto, sentivo che le scene d’amore avrebbero avuto un potenziale erotico maggiore se le due voci si fossero intrecciate all’interno della stessa tessitura, a differenza della situazione più convenzionale, in cui un soprano e un tenore sono separati da un’ottava».

Lei è stato l’ultimo e tra i più cari allievi di Messiaen. Anche lei insegna. Qual è il suo rapporto con le nuove generazioni?

«Ho avuto insegnanti meravigliosi e, di conseguenza, ho voluto insegnare fin dall’età di vent’anni. Mi piace la sfida, ringiovanente, di preparare e dare lezioni di analisi anche se, nel mio lavoro al King’s College di Londra, mi piace ancora di più il contatto diretto con i singoli giovani compositori. Cosa chiedono? Come tutti i giovani talentuosi ed energici, vogliono essere messi alla prova. Quindi, mentre cerco sempre di essere incoraggiante e solidale, sono anche pronto a mettere in discussione i più piccoli dettagli di armonia, sonorità, notazione o forma, nel tentativo di far crescere la chiarezza mentale dei miei studenti e l’accuratezza della loro immaginazione interiore».

Olivier Messiaen è diventato forse uno dei pochi veri grandi classici del secondo Novecento, la cui musica è entrata stabilmente nei programmi da concerto. Perché secondo lei? E cosa l’ha colpita in particolar modo della sua personalità?

«Perché? Perché è stato un creatore di genio, con una tecnica impeccabile e una meravigliosa immaginazione sonora abbinata a una visione artistica di stupefacente generosità e umanità. La sua musica, anche se a volte molto complessa, ha mantenuto un’accattivante semplicità di approccio, persino una naïveté, leggermente diversa da quella del suo grande amore Debussy. Per quanto riguarda la personalità, era un uomo di grande gentilezza ed entusiasmo senza limiti, in cui la forza di fede si mescolava alla eccezionale dolcezza».

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