venerdì 2 luglio 2010
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«Sono ecologista, a condizione che l’uomo venga incluso nell’ecosistema. Ma l’ecologismo militante che separa uomo e natura è estremamente pericoloso, potendo sfociare anche in nuove forme di totalitarismo. Esiste un vero pericolo quando, in modo malthusiano ed automutilante, si prende l’uomo per nemico». Il monito è del geografo francese Jean-Robert Pitte, rettore della Sorbona fino al 2008, di cui è appena uscito in Francia un incisivo pamphlet intitolato Il genio dei luoghi (Le génie des lieux, Cnrs Editions). L’autore auspica il ritorno a un pieno umanesimo nella scienza e nello sguardo sull’ambiente, senza schivare la questione spirituale.Professore, la sua riflessione comincia con la descrizione di un luogo, una foresta giapponese della dinastia imperiale. Perché?«Ho avuto la fortuna di visitare spesso il Giappone e credo ci sia molto da apprendere da questo Paese, soprattutto perché ha conservato quel senso del mistero che in Occidente non avremmo mai dovuto perdere. E mi riferisco anche a quanto accade spesso agli stessi cristiani. Grazie a san Tommaso d’Aquino, abbiamo assimilato Aristotele ma non è una buona ragione per smarrire il senso del mistero. In Occidente continuiamo a scivolare facilmente nel razionalismo, nel positivismo, nello scientismo. Il mistero ci fa paura. Tendiamo così a rendere insipido ciò che vi è di straordinario nel mistero della vita, il mistero della condizione umana e quello della relazione fra l’uomo e il suo ambiente. I giapponesi, pur non parlandone apertamente, si mostrano molto più sensibili di noi a tutto ciò. Parlerei di senso dell’ineffabile. Personalmente sono per la ragione. Ma talvolta il reale deve essere percepito e compreso senza essere braccato a tutti i costi dalla ragione. Soprattutto quando ci avviciniamo a ciò che esprime l’essenza stessa della condizione umana».C’è chi teorizza la fine futura del "senso dei luoghi", ma lei non è d’accordo…«Si sarebbe potuto credere che la rivoluzione industriale, quella post-industriale e l’accelerazione della globalizzazione avrebbero condotto a questa perdita. Ma in realtà, ci rendiamo conto che con l’avanzata della globalizzazione cresce anche il legame con luoghi portatori d’identità: un quartiere, una regione, una lingua, delle feste, una specifica architettura tradizionale. Come in una matrioska, viviamo con una serie d’identità l’una dentro l’altra».La sensibilità verso i luoghi e la conoscenza della geografia sono antidoti allo scontro di civiltà?«Un animale che spaventiamo con la nostra presenza estranea può diventare aggressivo. Nelle relazioni umane spesso la situazione non è molto diversa. Tendiamo ad aver paura di coloro e di ciò che non conosciamo. All’opposto, la geografia studia proprio le differenze fra i luoghi, le scelte e le strategie degli uomini. In proposito, per citare l’attualità, molti nutrono dubbi sull’utilità dell’Esposizione universale di Shanghai. Ma se ricordiamo ciò che la Cina rappresenta e ciò che desidera mostrare al mondo, non andare a Shanghai sarebbe un errore. Val meglio aprirsi e tessere legami con la Cina».Per molti, la geografia coincide solo con planisferi e carte murali. Si è esagerato nel sottomettere questa scienza antichissima alle moderne ragioni di Stato?«Ciò è stato molto vero in Francia, anche per l’influenza ricevuta dalla Germania ottocentesca, dove la geografia è stata strumentalizzata dal pangermanesimo. La geografia è stata spesso utilizzata come una sorta di macchina da guerra, non solo dagli Stati. Si pensi all’uso da parte degli "antimperialisti". Ma oggi siamo forse pronti per indagare meglio la pienezza dell’umanità nella pienezza del suo ambiente. Le attività economiche, ma anche quelle culturali e di piacere».Come le altre scienze, la geografia deve liberarsi dei vecchi demoni positivisti?«Sono radicalmente antipositivista e mi rendo conto che certe mie scelte odierne sono legate anche alla mia cultura d’infanzia cristiana. Avrei quasi voglia di dire, anche se ciò scandalizzerà forse qualcuno, che c’è un modo cristiano di fare geografia. In ogni caso, penso che non si possa comprendere l’Europa senza ricordare le divisioni, certo non impermeabili, fra le tradizioni protestante, ortodossa e cattolica. Al contempo, esistono grandi somiglianze nello sguardo sulla natura di cattolici, ortodossi, ebrei e musulmani: l’ambiente è quello degli uomini e la Terra è al servizio degli uomini. Verso l’ambiente l’uomo può esercitare la sua libertà e il suo senso di responsabilità. Nel mondo protestante, la natura è sacra e conviene non mutarla».A proposito di spiritualità, la sorprende la nuova attenzione verso il senso del sacro nel panorama culturale francese?»«Si tratta spesso d’intellettuali che riemergono da un positivismo molto forte. Si pensi agli ex allievi di Althusser, come André Glucksmann o Alain Finkielkraut, ritornati a un umanesimo sensibile al sacro, pur restando spesso non credenti. Si pensi ancora a Maurice Godelier e alla sua attenzione odierna verso il sacro, sconvolgente per chi lo ricorda marxista e positivista. Nutro fiducia nel futuro degli intellettuali. Certo, c’è ancora chi cita con nostalgia la generazione dei Foucault, Barthes e Sartre, ma senza rendersi conto che furono spesso pensatori tanto brillanti quanto portatori di valori rivelatisi falsi e incapaci di contribuire al bene dell’umanità».
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