venerdì 3 novembre 2017
Il primo fu l'ultimo protagonista dell'“Officina ferrarese”, l'altro era figlio del più celebre Giuseppe Maria. Dal tardomanierismo al tardobarocco: il genio dei "minori"
Luigi Crespi, «Ritratto di dama col cagnolino» (particolare)

Luigi Crespi, «Ritratto di dama col cagnolino» (particolare)

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Chissà perché il Sacrificio di Isacco di Caravaggio, conservato agli Uffizi, lo vedi spuntare come un fungo nelle mostre che ormai hanno trasformato l’artista “maledetto” in una specie di società tour operator (Testori, che certo non avrebbe approvato questa libido monstrandi, aveva una volta definito Caravaggio «la capitale mobile dell’arte europea», e il povero Michelangelo Merisi certo è lì a chiedersi perché non lo lasciano riposare un po’ in pace); ecco, chissà perché quel quadro degli Uffizi viaggia parecchio per essere un’opera preziosa, mentre gli stessi Uffizi hanno negato al Museo Davia Bargellini – scrigno di opere che vanno dal XIV al XVIII secolo, con una presenza di artisti bolognesi e di arredi d’epoca –, un importante autoritratto giovanile di Luigi Crespi, figlio del più celebrato Giuseppe Maria detto lo Spagnolo, fondamentale al discorso della mostra che il museo gli dedica (fino al 3 dicembre) come «ritrattista nell’età di papa Lambertini »? Lo scrive, senza peli sulla lingua, la storica Giovanna Perini Folesani nella prima nota del suo saggio nel catalogo edito da Silvana: «È spiacevole che la Galleria degli Uffizi, usa, come noto, a inviare a Mosca e a Tokyo per mostre politicamente rilevanti quadri della sua esposizione permanente assai più preziosi e delicati (Raffaello, Tiziano), non abbia infine concesso alla presente mostra scientifica, posta a meno di 100 chilometri di distanza, l’Autoritratto giovanile di Luigi Crespi, conservato da sempre nei depositi ed esposto brevemente al pubblico, a quanto consta, un’unica volta agli Uffizi nel 1993». Meglio tenerlo in cantina, dunque, che farlo vivere in una esposizione ragionata, piccola ma preziosa, su un personaggio che non fu solo pittore, ma anche mercante, ecclesiastico, scrittore d’arte. Non ho bisogno di notare quanto di polemico ci sia non nella rimostranza in sé della studiosa, ma nella sua contrapposizione fra mostre politicamente rilevanti e mostre scientifiche. Sta qui, certamente, uno dei limiti istituzionali nella gestione del patrimonio artistico nazionale: si prestano opere che volano a migliaia di chilometri di distanza da dove normalmente alloggiano, mettendone fatalmente a rischio l’esistenza (poni caso che l’aereo cada, oltre alle vite umane scompariranno anche capolavori che vengono prestati non sempre per motivi di studio: per questo i grandi musei e le loro assicurazioni quando prestano più di un’opera preziosissima chiedono di farle viaggiare separatamente su aerei diversi. Cinico calcolo delle probabilità).

Detto questo, la mostra di Luigi Crespi, curata da Mark G. D’Apuzzo e Irene Graziani, è occasione per palati fini. Ma non solo per addetti ai lavori. A parte che la visita al museo vale il viaggio a Bologna, basterebbe il Ritratto di giovane dama con cagnolino per sentirsi ripagati di tutto. Ma guardate che senso degli affetti in quella «bella mano carnosa» di lei che tiene la zampetta del cagnetto – un carlino (pare che anche Maria Antonietta e Giuseppina Bonaparte ne avessero uno), il cane da compagnia prediletto dalle signore italiane fra Sette e Ottocento, oggi molto in voga fra i vip. Come si dice nella scheda del catalogo generale del Museo il quadro, un tempo assegnato alla mano del padre, presenta un repertorio di accessori che lo stesso Luigi aveva classificato fra quelli utili a fare un bel ritratto: abiti con pieghe e panneggi gradevoli, mazzi di fiori, il cane appunto, oppure all’occorrenza libri e altro.

Quattordici opere, una scelta minima indotta dalle limitazioni economiche, ma utile a riaprire il discorso su un autore posto sempre nell’ombra paterna e considerato più per le abilità mercantili o ricordato soprattutto per la continuazione, «abboracciata» (come scrive Giovanna Perini Folesani), della Felsina Pittrice del Malvasia. Crespi fu soprattutto un ritrattista. Manca da noi, come scrive la studiosa, una tradizione di studi sulle acconciature e gli abbigliamenti come quella inglese o francese, che consentirebbe datazioni più certe delle opere. E anche qui la Perini Folesani – curatrice recente di una preziosa edizione critica del Dialogo sul colorito di Roger de Piles – lamenta l’impoverimento degli studi storiciartistici in Italia («un vertiginoso declino giusto nell’ultimo ventennio»). Anche Crespi era solito dipingere figure generiche a cui poi sovrapponeva «la faccia del gentiluomo, ritraendola dal vivo» con errori che, aggiunge la studiosa, si colgono anche nella «ritrattistica iniziale di Thomas Gainsborough». Certo, Luigi non raggiungerà mai i vertici e la continuità qualitativa del padre, tanto meno di Gainsborough, ma da questa piccola mostra la sua figura esce come esempio di ritrattistica che sposta gradualmente il tiro verso una idealizzazione romantica dell’aristocrazia senza rinunciare al vero (ai pittori consigliava di non legarsi troppo alle peculiarità fisiognomiche e di curare il “bello”). E la sua donna col cagnolino ha una verità e una franchezza che non sfigurerebbe accanto alla ritrattistica di Fra Galgario a cui fu talvolta accostato.

Un secolo prima di Crespi, a Ferrara, un pittore fino a qualche decennio fa poco studiato dagli storici aveva retto il testimone di quella che Roberto Longhi definì l’“Officina ferrarese” e l’aveva portato, pare, fino nella Roma di Caravaggio (dove, secondo una fonte, avrebbe vissuto oltre due anni). Parlo di Carlo Bononi, a cui Ferrara (Palazzo dei Diamanti fino al 7 gennaio) rende omaggio con una retrospettiva che finalmente illumina il suo ruolo all’interno dell’arte ferrarese, ma soprattutto emiliana (suoi ammiratori «eccessivi» erano Guercino e Reni, se vi sembra poco). Andrea Emiliani fu il primo a occuparsene in modo approfondito, seguendo alcune intuizioni di Longhi. Parole evocative, quelle di Emiliani, quando dice di un’avventura pittorica «ove la facondia cromatica, la cavata profonda del gesto, l’accordo veniva raggiunto con il mestiere » mentre «la sua educazione nasceva dall’estrazione manierista». Ma poi, ecco nelle Storie di san Paterniano emergere con chiarezza la sua «discendenza caravaggesca». In fondo il diapason della lettura critica di Bononi oscilla dentro un doppio movimento di uscita dal manierismo emiliano (che incrocia il classicismo carraccesco nel naturalismo di Ludovico), per assorbire la lezione caravaggesca e la costruzione scenica dei romani, infine per far ritorno in un alveo che l’aveva visto compagno di formazione del Guercino.

Il fatto è che su Bononi abbiamo una «inesistente documentazione», vuoto che si specchia appunto nella sua versatilità stilistica che – come titola la prima sezione della mostra – che lo rende «pittore inafferrabile». Dov’è Bononi? Qui e altrove. Non è un innovatore, nemmeno un eclettico, è un sentimentale, cerca la pittura degli “affetti” e lo si capisce dal piacere con cui dipinge nudi maschili, con una prestanza e una sensualità che, se richiama Bastianino, mi ricorda invece certe académies d’homme di Géricault. «Corpi fatti umani e concreti, verso un sommuovere temporalesco e macchiato...» – aldilà dei «fantasmi androgini» del Correggio, e già, se mi è concesso il salto triplo carpiato, pasoliniani – prova di un’attrazione fisica per la carnalità pittorica. Sarà un caso che il suo Genio delle arti, in più versioni, tenda così tanto alla ribalda nudità dell’Amore vincitore del Caravaggio? È soprattutto la sua propensione a esaltare il ventre maschile che colpisce, come nell’ardito nudo di Cristo del Noli me tangere, o del Cristo portacroce incastonato con la sua cornice nella Raccolta della manna, così anche nell’Enea che fugge da Troia, nella Pietà coi santi Sebastiano e Bernardino (che mi ricorda la fase aulica del Valentin), nel San Sebastiano della Cattedrale di Reggio Emilia, fino all’Angelo custode della Pinacoteca estense. Se si vorrà trovare un filo unificatore nella pittura di Bononi, forse bisognerà cercarlo in questo rapporto col nudo maschile, che mantiene la sua riconoscibilità anche nella variazione dello stile.

La sintesi è di Luigi Ficacci: «In Bononi è pressoché impossibile dedurre una cronologia certa attraverso le sole componenti dello stile perché la compresenza in cui si enunciano tanto pensieri e conoscenza di sorprendente modernità, quanto arcaismi di sorprendenti acredini neomanieriste costituisce forse essa stessa uno dei caratteri fondamentali della sua poetica». Certo si può comprendere perché Guercino dicesse di versare lacrime «di stupore » o «di giubilo» davanti al ciclo di Santa Maria in Vado a Ferrara. E Reni centrò il punto definendo il suo dipingere «grande e primario». Ora si dovrebbe ripartire dalla cronologia, ed è ragionevole la proposta di Francesca Cappelletti – che con Giovanni Sassu cura la mostra – di posticipare la nascita (che le fonti fissano al 1569) perché s’accorderebbe meglio con le sue prime opere firmate risalenti agli inizi del Seicento e con l’ipotesi del viaggio a Roma. Ma di tracce in loco non se ne trovano. La caccia è aperta.

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