sabato 27 gennaio 2024
L’esponente di Medici senza frontiere, francese nato in Israele, che oggi riceve il Premio Nonino, giudica ipocrita il codice di salvaguardia dei diritti, pensato per chi fa la guerra non per i civili
Rony Brauman

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Rony Brauman, per Medici senza frontiere, è il vincitore del Premio Nonino 2024. Qui anticipiamo la sua relazione, che viene pronunciata questa mattina in occasione della premiazione a Ronchi di Percoto nelle distillerie Nonino. Lo scrittore Alberto Manguel viene invece insignito del Premio internazionale Nonino per l’impegno in favore della spiritualità e della cultura. Alla scienziata della Terra Naomi Oreskes il Premio Maestro del nostro tempo, allo scrittore Angelo Floramo il Rist d’aur barbatella d’oro.


Sono entrato in Medici senza frontiere nel marzo 1978, quarantasei anni fa, e così sono il più vecchio dei medici senza frontiere. Ci ero entrato per qualche mese, quando Medici senza frontiere era una piccola associazione di volontariato, senza mezzi. Poi, col tempo, l’associazione si è ingrandita, strutturata, internazionalizzata, e nel 1999 ha ricevuto il Nobel per la pace. Oggi è una delle più importanti Ong al mondo.

Potrei raccontarvi diversi episodi significativi di questa storia ricca di avvenimenti, ma ho deciso di concentrarmi su una situazione particolarmente tragica, quella che ci preoccupa tutti da mesi. Mi riferisco alla guerra a Gaza, naturalmente. In questo momento ci sono altri luoghi di violenza nel mondo, penso in particolare al Sudan, alla Birmania, al Congo, all’Ucraina e a molti altri ancora. Ma nessuno è un tale concentrato di strumentalizzazioni e contraddizioni di retorica umanitaria da parte dei governi occidentali ed è di questo che vi voglio parlare.

Mi riferisco agli appelli dei governi europei a «rispettare il diritto umanitario», alla «necessità di limitare i danni collaterali» pur sottolineando con insistenza il diritto irrecusabile di Israele a difendersi. In altre parole, la punizione inflitta all’insieme della popolazione di Gaza è accettabile e legittima purché non vengano uccisi troppi civili. E si fa finta di ignorare, da una parte, che il diritto umanitario vieta la punizione collettiva, e dall’altra, soprattutto, che Israele è una potenza occupante che si scontra con una milizia nata dalla popolazione occupata, a Gaza come in Cisgiordania. E si dimentica che il diritto di difendersi spetta agli occupati e non agli occupanti. Tengo a precisare qui che considero crimini ingiustificabili le atrocità perpetrate dai miliziani di Hamas il 7 ottobre. La colonizzazione e le sue violenze non giustificano l’uccisione di civili, gli stupri, le prese di ostaggi. Come gli orrori perpetrati il 7 ottobre non giustificano la carneficina alla quale stiamo assistendo apparentemente impotenti.

Devastazioni a Rafah, nella Striscia di Gaza

Devastazioni a Rafah, nella Striscia di Gaza - / Reuters/ Ibraheem Abu Mustafa

Tutti i Paesi del mondo sono tenuti al rispetto e alla difesa delle Convenzioni di Ginevra. E devono pertanto ricordare ai belligeranti che la conduzione delle ostilità deve ottemperare a determinati obblighi di rispetto delle popolazioni e dei luoghi civili e del principio di proporzionalità nel ricorso alla violenza. Ma questo conflitto non è cominciato il 7 ottobre, bensì settantacinque anni fa. E sono più di cinquant’anni che Israele insedia popolazioni civili nei territori presi con la forza, il che è formalmente proibito dal diritto umanitario. Anziché essere richiamati all’ordine o sanzionati, gli israeliani sono ricompensati, sostenuti politicamente in quanto democrazia, economicamente come quasi-membri dell’Europa. L’apartheid, l’espropriazione delle terre palestinesi, le espulsioni e gli sfollamenti forzati, la tortura, la detenzione arbitraria di migliaia di persone sono il regime quotidiano della vita di milioni di palestinesi. Quegli abusi quotidiani che naturalmente non sono cominciati il 7 ottobre scorso, sono tutti condannabili dal diritto umanitario, eppure vengono citati solo en passant dalle diplomazie occidentali.

Ci si preoccupa del «processo di pace» che potrebbe essere compromesso, e vengono lanciati appelli per riprendere i negoziati, come se esistessero veramente un «processo di pace» e dei «negoziati», mentre invece sono entrambi morti e sepolti da quando il generale Rabin è stato assassinato nel 1995. È un discorso ipocrita che definisco «retorica umanitaria.»

Io sono nato in Israele in una famiglia sionista. Il mio luogo di nascita non mi dà alcun diritto particolare di pronunciarmi su questo conflitto, però provoca in me una particolare inquietudine nel vedere come è diventato il mio Paese di origine. Non solo perché vedo una condotta suicida, un nichilismo che si traducono in un’escalation di violenza e di odio, ma anche perché fa irradiare quella violenza e quell’odio ben oltre i confini della Palestina storica.

Tuttavia, al di là degli affetti che mi legano a questa terra, al di là dell’attualità bruciante, ossessionante di quei massacri, vedo un altro pericolo, più globale e al contempo più specifico. Prima ho sottolineato le strumentalizzazioni ipocrite del diritto umanitario, ovvero il fatto che sia stato deliberatamente ignorato e usato in modo opportunistico. Adesso voglio parlare delle critiche che vennero formulate sin dai primi testi alla fine del XIX secolo. I pacifisti dell’epoca lo hanno in effetti rifiutato perché aveva la funzione essenziale di rendere accettabile la guerra, dal momento che venivano proibiti gli eccessi di crudeltà.

Il diritto umanitario dovrebbe permettere la creazione di «oasi di umanità» e garantire uno statuto di protezione ai non combattenti e agli organismi umanitari. Per quanto fragile sia quella promessa, essa ci esorta alla sua difesa e deve essere mantenuta. Ma la guerra di Gaza ci ricorda che questo diritto è opera innanzitutto di chi fa la guerra. Ed è per questo che autorizza tutto ciò che rientra nella «necessità militare».

Il diritto umanitario funziona tanto come strumento di protezione della vita quanto come licenza di uccidere. E poiché veicola il mito della «guerra pulita», si può definire necro-etico, ovvero un’etica che legittima l’uccisione di un numero di innocenti considerato ragionevole. Chi definisce le «necessità militari», chi traccia la linea di demarcazione fra le crudeltà eccessive e quelle necessarie? I vincitori, ovviamente. I procedimenti della Corte penale internazionale e della Corte internazionale di giustizia cambieranno quest’ordine imperniato sulla legge del più forte? Possiamo sperarlo, possiamo dubitarne, ma è con questo fragile barlume di speranza che mi fermo.

(Traduzione di Francesca Novajra)

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