martedì 21 novembre 2023
Una proiezione toccante quella di "Io Capitano" al Centro San Fedele a cui è seguito un dibattito molto intenso tra il regista romano e l'arcivescovo di Milano Mario Del Pini
Da sinistra: il regista Matteo Garrone, don Davide Milani e l'arcivescovo di Milano Mario Delpini

Da sinistra: il regista Matteo Garrone, don Davide Milani e l'arcivescovo di Milano Mario Delpini

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«Il viaggio dell’ascolto» di Matteo Garrone domenica scorsa ha fatto sosta a Milano, al Centro San Fedele, per la proiezione del suo film capolavoro Io Capitano. Un incontro promosso da Fondazione Culturale San Fedele, Ufficio per la Pastorale dei Migranti dell’Arcidiocesi di Milano, Caritas Ambrosiana, Associazione San Fedele ODV, Fondazione Ente dello Spettacolo, Casa della Carità A. Abriani, Azione Cattolica Ambrosiana e Pime. Spettatore d’eccezione del film (Leone d’argento a Venezia e film italiano candidato all’Oscar) l’arcivescovo di Milano Mario Delpini. Un incontro moderato da monsignor Davide Milani che con la Fondazione Ente dello Spettacolo sta trascinando la carovana sempre più folta degli estimatori di questa pellicola che è stata vista e apprezzata anche in Vaticano da papa Francesco, e il cui approdo finale, secondo le intenzioni del regista romano, è tornare dove il viaggio è cominciato: l’Africa. «Sì, stiamo cercando di organizzare delle proiezioni in quei Paesi, a cominciare dal Senegal del protagonista Seydou (lo straordinario Seydou Sarr, premiato a Venezia con la Coppa Mastroianni), per mostrare ai giovani africani che cosa vuol dire compiere quel “viaggio dei desideri” verso l’Europa. Informarli su quali possono essere i rischi e i pericoli, ma senza per questo indurli a rinunciare al sogno di un futuro migliore che comincia dal diritto a viaggiare e a conoscere liberamente altri luoghi, così come è concesso ai nostri ragazzi». Il diritto a sentirsi parte di un mondo in cui «dobbiamo smettere di parlare di migranti e cancellare il termine extracomunitari, e tanto meno usare l’accezione di “straniero”. Nella nostra Chiesa chi entra non deve mai essere considerato né sentirsi straniero, ma parte integrante di una sola umanità» ha detto l’arcivescovo Delpini alla fine della proiezione in una sala fortemente colpita dalla storia e dalle immagini potenti di un’opera assai cruda e reale, quanto frutto della creatività narrativa di Garrone che, per un’anziana e attenta spettatrice, va ascritto alla categoria inedita del “regista-spettatore”. « Io Capitano, nasce da un rapporto di reciproca fiducia tra me, gli attori e i figuranti, molti dei quali sono stati testimoni diretti del viaggio drammatico che mi hanno permesso di raccontare. Un viaggio vero anche a livello cinematografico, in cui bisogna metterci in ascolto così da comprendere tutti, in particolare i giovani, che cosa c’è dietro al momento finale dello sbarco sulle nostre coste». Dietro c’è un deserto, anche umano, arido e spesso senza oasi di speranza, fatto di torture, illusioni disillusioni, perché chi fugge dalla sua terra deve fare i conti con la cattiveria umana. «Ma non esiste un territorio fatto di solo bene, come uno fatto di solo male» avverte l’arcivescovo Delpini, che ha piena fiducia nelle nuove generazioni e soprattutto nello sguardo verso orizzonti lontani di Seydou che testimonia «come si possa rimanere puri anche dinanzi alle peggiori avversità e l’invocazione a Dio ristabilisce sulla barca, di cui diventa il giovane Capitano che porterà tutti in salvo senza che nessuno muoia, la docilità degli uomini grazie alla fede». Ed è un atto di fede anche quello compiuto da Garrone che sta portando Io Capitano in tutte le scuole d’Italia con il preciso intento di far comprendere ai ragazzi che Seydou e suo cugino Moussa non sono due giovani scappati dalla guerra e dalla fame, «il luogo comune ricorrente nelle tragiche storie di migrazione», ma si tratta semplicemente di due “sognatori” nati e cresciuti al di là del Mediterraneo che hanno tanti punti di contatto con le nuove generazioni occidentali. «Vorrei proprio che dal film passasse questo messaggio, i molteplici punti di empatia che possono mettere in comunicazione diretta i giovani africani con i nostri, con i quali condividono la stessa musica (Seydou sogna di diventare un cantante rap di successo), la stessa passione per il calcio e i programmi tv che vedono dal loro telefonino. Ma soprattutto hanno in comune la voglia di viaggiare per il mondo, l’attaccamento alla famiglia e convivono con le stesse identiche preoccupazioni dei genitori per la loro crescita e le incertezze di un futuro. E tutto questo universo condiviso, serve a far capire che non possiamo più guardare a un fenomeno come la migrazione solo fermandoci ai numeri, ma occorre arrivare a quella radice umana che azzera le distanze e ci rende tutti protagonisti di una sola “Storia”».

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