venerdì 9 aprile 2010
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Di pugno, di piede, di coscia. E se serviva anche di “sedere”. Claudio Garella non si è fatto mancare niente, tra i pali. Ha parato il parabile con tutte le parti del corpo. Nel calcio estetizzante, si è sempre sentito un «pesce fuor d’acqua». E guarda caso, sotto la sua mole da Depardieu del pallone, siamo andati a ripescarlo al Barracuda, società di Seconda categoria, periferia torinese, nata tra gli avventori di un Bar storico della classe operaia di Mirafiori. Qui, il quasi 55enne Garella è dirigente e allenatore di una squadra composta per lo più dai figli di emigrati, «parecchie testa calde, ma tanta passione», dice ridendo. Il pretesto è per commemorare nostalgicamente i 25 anni dello scudetto del Verona (stagione 1984-’85), l’ultima provinciale del calcio italiano che si è fregiata del tricolore.Garella che ne dice se cominciamo proprio dall’anno mitico del Bentegodi?«Dico che mi vengono i brividi se ripenso a quell’annata. Tutti quanti noi dobbiamo dire grazie a un grande signore del calcio, Osvaldo Bagnoli».Ma anche a un gruppo di “scartati”: da lei a Di Gennaro, fino a “Nanu” Galderisi che siete stati l’anima di quell’impresa.«Una squadra unica e irripetibile. Con il calcio-business che impera sarà impossibile che un Udinese o un Cagliari che per organizzazione mi ricordano un po’ quel Verona, possano un domani arrivare a tanto. “Noi - come ripeteva sempre Bagnoli - ce l’abbiamo fatta perché abbiamo capito che era l’unico modo per rimanere nella storia”».La sua storia personale era iniziata con tanto “fango” tra i guanti, più quello che gli gettavano addosso dalla Curva e dalla tribuna stampa.«Alla Lazio e alla Samp mi hanno dato del panettiere, del pastaio, del salumiere. Gianni Brera mi ignorava, Giorgio Bubba mi massacrava di critiche e così anche Vladimiro Caminiti che poi però mi incontrava a Torino, mi prendeva sottobraccio e mi diceva: “Dai Claudio, andiamoci a bere un caffè...”. Alla fine l’ho fatto ricredere. E insieme a lui credo tanti altri».Crede che la maggior parte degli amanti del calcio la ricordi più per le garellate di “Paperella” o per gli interventi eroici da “Garellik”?«Io mi sono sempre sentito un “Don Chisciotte”, uno perennemente in lotta contro i mulini a vento e per sconfiggerli in campo dovevo sempre dare il 110%. Potevo anche aver parato due rigori e salvato dieci partite che alla prima sconfitta puntualmente la colpa era del sottoscritto».La rivincita più importante?«Aver avuto la grande soddisfazione di conquistare due scudetti con Verona e Napoli: due squadre che non ce l’avevano mai fatta prima e che per questo, appunto, rimarranno nella storia».E nella storia del calcio chi è il numero uno?«Diego Armando Maradona, il più grande di tutti e non solo in campo. A Napoli l’ho visto prestare ascolto e dare soldi agli scugnizzi, portare soccorso agli ultimi, a quelli che non guardava in faccia nessuno. Adesso tanti sono buoni solo a criticarlo per l’esistenza che ha condotto, ma nessuno si è mai chiesto quanto sia stato difficile per lui vivere da Maradona...».Però quel Napoli con Maradona avrebbe potuto vincere di più...«E ci sarebbe riuscito, ma se non ci fosse stato Ottavio Bianchi... Un uomo con cui la squadra ha rotto, io per primo. E così ho perso l’occasione di vincere il mio 3° scudetto in carriera, sarebbe stato il secondo di fila per il Napoli».Molti sono convinti che, quel titolo della stagione 1987-’88, il Napoli lo perse su precisa imposizione della Camorra...«Menzogne. Se solo avessi avuto la minima percezione che la malavita condizionava le nostre partite, avrei messo un minuto a fare le valigie e portare via la mia famiglia da Napoli. Abbiamo perso solo perché il Milan era stato superiore tecnicamente e anche psicologicamente. Maradona a Napoli faceva fatica anche a fare due passi che la città si fermava, mentre Van Basten e Gullit a Milano potevano tranquillamente andare a bersi l’aperitivo in Piazza Duomo».Torniamo in porta, ha più visto un Garella tra i pali?«Con tutti i pregi e i difetti, no. Oggi mancano i personaggi. Dove sono ora i Giovanni Galli, i Terraneo, i Tancredi, i Tacconi, gli Zenga e mi permetto di dire i Garella? C’è solo Buffon e Gigi sarebbe stato il migliore anche tra quelli della mia generazione, ma dietro di lui ha ragione Albertosi quando dice che vede il “deserto”. La nostra scuola italiana è in crisi e non è mica un caso che quasi tutte le grandi schierino un portiere straniero».Chi è invece oggi il Garella allenatore?«Mi ispiro a Bagnoli: poche parole e molti fatti. Ma adoro Mourinho, finalmente uno che ci mette la faccia e dice sempre le cose come stanno. Lo trovo sincero come lo chardonnay di mia produzione».A proposito di vino, come vanno le partite di beneficenza con la “Wineland”?«In questo momento do una mano all’Associazione degli ex granata, so che Bagnoli e Nanni ne hanno fondata una simile all’Hellas Verona per sostenere i colleghi in difficoltà, ma io vivo a Torino e il mio cuore da sempre batte per il Toro in cui sono nato e cresciuto. Per me sarebbe stato il massimo chiudere in granata, ma è un sogno che non ho realizzato...».Provi allora con un sogno che può ancora realizzare.«Mi piacerebbe tornare a lavorare nel professionismo, ma nell’attesa di una chiamata mi dedico anima e cuore ai miei ragazzi del Barracuda. Qui mi creda, se ogni anno riesci a toglierne anche uno soltanto dalla strada e salvarlo dalle cattive compagnie, è come vincere un altro scudetto».
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