mercoledì 4 marzo 2020
L’azzurra della Juve: «Il calcio femminile è cresciuto in questi ultimi 4 anni, ma c’è ancora da lottare, anche per il riconoscimento del professionismo. Il razzismo? La politica la smetta di dividere
Gama, capitana mia capitana
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L’azzurra della Juve: «Il calcio femminile è cresciuto in questi ultimi 4 anni, ma c’è ancora da lottare, anche per il riconiscimento del professionismo Il razzismo? La politica la smetta di dividere» Inviato a Vinovo ( Torino) «Il calcio rispecchia il momento storico che sta vivendo la nostra società... e non è proprio un momento felice». Inizia così a Vinovo, nella casa della Juventus Women, l’incontro con una solarissima Sara Gama prima della trasferta azzurra in Portogallo (oggi in campo contro le lusitane nell’Algarve Cup). Figlia di un’Italia in cui nessuno deve sentirsi straniero, specie se sei nata e cresciuta a Trieste, da madre triestina e padre congolese. Classe 1989, Sara è una calciatrice laureata («a Udine») in Lingue e letterature straniere. Tre, quelle parlate: «Inglese e spagnolo studiate al Liceo Scientifico – precisa –. Il francese imparato a Parigi, quando giocavo nel Psg». La capitana delle bianconere e della Nazionale femminile, è una gazzella che si presenta puntuale all’appuntamento in tuta della Juve campione d’Italia e capolista della Serie A, poco prima dell’allenamento. Il sorriso sempre acceso sotto i ricci capricciosi che conoscono bene anche le bambine nella versione giocattolo “Barbie-Gama”. Scandisce ogni singolo concetto e stupisce per lucidità e profondità di analisi – su ogni argomento affrontato – come una finta di corpo quando affonda o difende sulla sua fascia. «Beh non a caso qui mi chiamiamo “Barack OGama”», dice sorridendo questa splendida donna di sport, forse l’italiana più completa e coraggiosa incontrata in un Paese reale in cui domina l’insana paura, ordita dalla per niente aurea mediocritas. Un personaggio raro fin dagli esordi a Trieste: «A 12 anni ero l’unica ragazzina della città tesserata nel campionato giovanile maschile. Una mosca bianca».

Ma come è cominciata questa sua lunga storia d’amore con il pallone?
Mah, un giorno un mio amico del quartiere popolare di Valmaura, dove giocavamo tutti i pomeriggi per la strada, mi fa: «Dai Sara, vieni a provare allo Zaule Rabuiese? Vado, vedono che con i piedi ci so fare e mi prendono.

Dicono che giocasse anche meglio dei maschietti...
Il mio primo allenatore racconta ancora che un compagno della mia squadra gli si avvicinò e gli disse: «Mister, ma perché Sara palleggia e se ne va in giro per il campo?». E lui secco: «Quando non ti cadrà più la palla a terra come a lei, allora potrai farlo anche tu... Molti di quei ragazzini di ieri li sento ancora, siamo rimasti amici e quando sono tornata in visita alla Rabuiese ho visto con piacere che adesso hanno anche una squadra femminile.

Tempi che cambiano, ma tornando a ieri: quanti “nemici” si era fatta in campo?
Allora imperava il “sei scarsa per giocare a pallone”. Io però, con il fatto che emergevo, difficilmente venivo offesa dagli avversari. E poi dopo che avevo segnato i primi due gol della Rabuiese in quel campionato ero assurta allo status di eroina. Da lì in poi ho cominciato a fare la pendolare da Trieste a Tavagnacco, la società che mi ha lanciato nel calcio che conta.

Ma calcio di alto livello e studio si possono conciliare “dottoressa” Gama?
Ci ho messo un po’ a laurearmi, però tre anni fa sono riuscita a discutere la mia bella tesi in Storia Moderna, sulla nascita e l’evoluzione del calcio femminile. Mi sono letta un sacco di libri inglesi e americani, ma la maggior parte della bibliografia era in francese.

Vogliamo parlare del biennio (2013-2015) parigino?
Al Paris-Saint Germain ho vissuto un’esperienza così forte e importante che ha inciso profondamente su ciò che sono ora. Qui da noi all’epoca non c’era ancora niente, lì sono entrata in un altro mondo, un super club con una rosa di dieci francesi e altrettante straniere, tutte topplayer. Sono l’unica italiana ad aver disputato una finale di Champions, l’ho persa, ho giocato poco, mi sono anche infortunata, ma ho imparato tanto e soprattutto ho vissuto da professionista.

Ecco, il “professionismo” parola ancora tabù nel nostro calcio femminile e non solo...
Un tabù per quasi tutto lo sport italiano, basti pensare che ad oggi se non si dovesse qualificare il basket maschile, solo il ciclismo porterebbe degli atleti professionisti ai prossimi Giochi olimpici di Tokyo. Superare lo stato attuale di dilettantismo diffuso è una battaglia politica nella quale sono impegnata in prima linea come consigliere in Figc e membro dell’Aic. Ma la politica ha tempi lunghi e i programmi non si realizzano per imposizione. Un passaggio del genere va forzato ma non imposto. Con il professionismo i costi per le società è vero che raddoppierebbe-ro, ma è altrettanto vero che le risorse ci sono.

Le risorse si trovano, come dimostra il boom post-Mondiale 2019.
L’Italia il boom del calcio femminile lo aveva già vissuto negli anni ’60. Molti hanno dimenticato che dettavamo legge fino agli anni ’80 con tanto di 2° posto gli Europei. Poi abbiamo smesso di correre e negli ultimi vent’anni in tanti ci hanno superato. Però stiamo recuperando in fretta, a riprova che noi italiani quando ci impegniamo le cose le facciamo bene e meglio degli altri.

Un messaggio carico di speranza. Rispetto a quattro anni fa è tutta un’altra storia. Finalmente la Serie A ha capito e ha creato le sue squadre femminili: ha cominciato la Fiorentina, poi è arrivata la Juventus. Qui sono a casa mia, l’organizzazione comincia ad essere in linea con quei club modello tipo Psg, con la differenza che qui gioco titolare e vivo il nostro movimento da protagonista.

Non a caso è la capitana delle azzurre. Ma scusi, si dice capitana o capitano?
Direi capitana. Ma è inutile che mi chiami capitana solo perché mi stai ridicolizzando. Serve rispetto e io in campo e fuori mi batto per la parità vera che comincia proprio dal linguaggio che plasma la realtà di tutti i giorni. Ritengo sia giusto introdurre gradualmente i termini corretti, e in questo i media hanno un ruolo e una responsabilità fondamentale. Comunque, la parola capitano si declina bene al femminile, molto meno agevole è parlare di portiere o portiera, difensore o difensora, anche se in questo caso viene in soccorso il neutro “difendente”.

Piccola lezione filologica dalla calciatrice più amata dagli italiani... Dopo il Mondiale quanto è cresciuta la sua popolarità? Tanto e dall’esterno a volte veniamo giudicati come divi che se la tirano e invece non ci si rende conto che sia- mo bombardati di richieste e pressioni costanti. Basta che salgo su un treno che si scatena la corsa al selfie. Chi mi conosce sa che a primo impatto davanti alla richiesta di fare foto reagisco sempre con uno sguardo poco conciliante, ma poi sono sempre disponibile. Così come cerco di rispondere alla maggior parte dei messaggi che mi arrivano via social, anche se ho adottato un metodo di selezione: rispondo solo a chi si prende il tempo necessario per scrivere una mail come si faceva una volta con le lettere. Apprezzo tanto il «per favore» e il «grazie », perché penso che la cortesia e l’educazione siano valori imprescindibili.

Dalla maleducazione origina anche il razzismo dilagante negli stadi...
A me è andata bene. A parte un paio due tweet durante i Mondiali... C’era un signore che si interrogava sul cosa ci facesse una di colore in mezzo a delle ragazze con la maglia azzurra... Non sapeva che ero la capitana. E un altro che mi ha fatto scoprire che esisterebbe in natura un presunto “cromosoma italiano”, mentre io ero ferma al cromosoma x e y – si ferma e sorride Sara poi riattacca seria –. L’italiano a volte è un popolo ignorante, ed è l’ignoranza che ha fatto crescere i casi di razzismo. Ma i razzisti vengono istigati da una cattiva politica che invece di occuparsi dell’aumento della soglia di povertà, dell’economia allo sbando e della disoccupazione giovanile, sposta l’attenzione sull’infondata minaccia dello straniero che ci ruberebbe le cose e poi il futuro. Tutto questo è assurdo, proprio come il razzismo.

C’è qualche collega con cui riesce ad affrontare questi temi delicati extracalcio?
Sicuramente uno è Giorgio Chiellini. Al di là dello stesso ruolo in campo e il numero di maglia che ci accomuna, il “3”, con Giorgio abbiamo tante affinità. Siamo sempre in contatto e stiamo lavorando bene nell’Aic.

Sara lei crede in Dio?
Le feste più belle sono sempre state quelle trascorse a Trieste assieme alle mie amiche che frequentano la comunità parrocchiale. Io credo in qualcosa, ma la religione è uno strumento che va usato al meglio. Credo che nell’animo umano si annidi la stessa quantità di bene e di male e ognuno tenti di vincere la propria partita in favore del bene, così come tutti abbiamo il senso dell’unione che dobbiamo perseguire, impedendo che qualcuno o qualcosa ci possa dividere.

Nelle sue vene scorre sangue africano, va spesso in quei luoghi che sono i più a rischio per povertà e mortalità infantile?
Sarà un caso, ma non ho mai messo piede in Africa. Mi piacerebbe un giorno visitare il Congo e andare a scoprire le mie radici paterne. La povertà e i bambini che soffrono sono immagini che mi fanno stare male... Ripeto spesso: se hai dieci giubbottini firmati, il decimo se lo regali con generosità sincera a un’altra persona che ne ha bisogno, beh quel dono avrà un effetto incredibile su di te. Ridare qualcosa indietro della tanta fortuna di cui disponiamo non solo è un dovere, ma è una forma di guadagno morale che fa bene a se stessi... Fa bene al mondo.

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