mercoledì 30 agosto 2023
Lo scienziato come simbolo del dramma dell’uomo moderno, vacillante e incapace di dare equilibrio al tema degli opposti: fede e scienza, immanenza e trascendenza, meraviglia-disincanto
Galileo Galilei nella storica banconota da duemila lire

Galileo Galilei nella storica banconota da duemila lire

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Pubblichiamo la sintesi della lectio magistralis dal titolo "Il processo di Galileo Galilei: la meraviglia e il disincanto" con cui il filosofo e scrittore Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis, aprirà la XX edizione del “Festival della Mente” di Sarzana venerdì 1 settembre.

Se non fosse stato assillato dai debiti, all’inizio della sua carriera, forse Galileo Galilei non avrebbe approfittato di quell’occasione irresistibile. Offre al doge di Venezia una sua mirabolante invenzione: il cannocchiale. Con grande meraviglia, i vecchi notabili fanno la fila per affacciarsi dal campanile di San Marco e provare lo strumento che permette di vedere vicine le cose lontane in tutta la laguna. Nell’epoca dei vascelli e dei cannoni, vedere prima significa predire il futuro. Un’ambizione in cui è racchiuso il senso del dominio dell’uomo sulla natura attraverso la tecnica: l’idea di potenza, che è la chiave della modernità. Bisognava addomesticare un mondo che fino a quel momento era parso oscuro e minaccioso. In segno di riconoscenza, il Senato della Serenissima gli offre un contratto a vita da professore – e lui non era neanche laureato – e gli raddoppia lo stipendio, da 500 a 1.000 scudi. Per la verità, il cannocchiale era stato inventato dai molatori di lenti olandesi. E di lì a poco si troverà in vendita a pochi zecchini sulle bancarelle di tutti i mercati d’Europa. I veneziani non avevano fatto un buon affare. E allo scienziato va addebitata una certa spregiudicatezza. Ma non c’è dubbio che la meraviglia è all’origine della modernità.

In una limpida notte d’autunno del 1609, Galileo punta verso le stelle il suo rudimentale telescopio e vede qualcosa che mai nessuno prima di lui aveva visto: il volto rugoso della Luna, i satelliti di Giove, le fasi di Venere. Da quelle «meravigliose osservazioni», come lui stesso scriverà, inizia la rivoluzione scientifica, che cambierà la nostra concezione del mondo e di noi stessi. Le scoperte astronomiche però danno le vertigini, accendono il conflitto tra verità e potere. Perché confermano il sistema eliocentrico ipotizzato da Copernico e smentiscono le Sacre Scritture. Si apre un caso giudiziario tra i più noti e controversi: il processo per eresia celebrato contro Galileo dal Sant’Uffizio, il Tribunale dell’Inquisizione romana. Viene arrestato, interrogato, minacciato di tortura, e la sua opera è messa all’indice. Sappiamo che alla fine si piegò all’umiliazione dell’abiura. Fu lo stratagemma di un eroico difensore della libertà di pensiero contro ogni dogma, che in quel modo poteva sottrarsi al martirio e promuovere in segreto l’emancipazione umana? Oppure Galileo fu un uomo ipocrita e vile, arreso all’oscurantismo?

Sono ore d’angoscia. Deve decidere che cosa dirà ai suoi giudici: o la scienza o la vita. Lo tormenta il pensiero di quel frate filosofo morto trentatre anni prima sul rogo di Campo de’ fiori. Giordano Bruno era andato incontro fieramente al supplizio: per impedirgli di pronunciare parole blasfeme, gli avevano messo la mordacchia. E ripensa pure ai cinque processi subiti da Tommaso Campanella, l’altro eretico impenitente, imprigionato per ventisette lunghi anni nelle carceri napoletane – a nulla era valso fingersi pazzo – e sette volte sottoposto alla tortura. Rimasto sospeso con le braccia slogate per trentasei ore consecutive, una volta deposto da quel tormento, incapace di reggersi sulle proprie gambe, più morto che vivo, con disprezzo plebeo aveva sibilato ai suoi aguzzini: «Che si pensavano che io era coglione, che voleva parlare?».

Galileo è diverso. Gli interrogatori erano stati estenuanti, ormai ha perso la sua proverbiale temerarietà. È un uomo spezzato, ha paura. In quel fatale 22 giugno 1633, nel convento di Santa Maria sopra Minerva, dove viene condotto a dorso di mulo, vestito con il saio bianco dei penitenti, si inginocchia per ascoltare la lettura della sentenza: «vehementemente sospetto d’heresia». Poi pronuncia la formula della ritrattazione. Si dice che, risollevandosi in piedi, abbia mormorato il famoso motto «Eppur si muove», riferendosi al moto della Terra. Si tratta di una leggenda, ma ne ha ingigantito il mito.

Per Bertolt Brecht, Galileo ritratta, ma non si piega. In una scena della sua opera teatrale più celebre, gli fa dire: «Nel nostro tempo l’astronomia si predicherà sulle pubbliche piazze come il Vangelo, e i figli delle pescivendole andranno a scuola». Chiaro: la scienza è la via per il riscatto sociale dei diseredati. Quella prima versione era stata scritta in Danimarca, dove il drammaturgo tedesco si era rifugiato per sfuggire all’incubo nazista: è un uomo in fuga, c’è un perfetto rispecchiamento con il suo personaggio. Ma poi, dopo la guerra, nella versione messa in scena a New York nel 1947 – nel frattempo Brecht si era trasferito in America, come tanti esuli europei – gli imputa la colpa imperdonabile di aver asservito la scienza al potere: Galileo «piantò in asso il popolo».

Anche Brecht fu sottoposto a un duro interrogatorio della Commissione McCarthy nel pieno della fobia anticomunista. E una sorte analoga toccò a Robert Oppenheimer, direttore dei laboratori segreti di Los Alamos, nel deserto del New Mexico, dove era a capo del «Progetto Manhattan». Oppenheimer è una figura tragica: dopo Hiroshima, è dilaniato dal rimorso. La guerra è vinta, ma al prezzo della catastrofe morale. Con la minaccia dell’apocalisse, si era aperto uno spaventoso abisso tra lo sviluppo della tecnica e il progresso umano. Per questo si era opposto alla sperimentazione della nuova bomba all’idrogeno, con il suo infernale potere di distruzione, mille volte superiore a quello deflagrato in Giappone. Messo sotto inchiesta dalla Commissione per l’energia nucleare, dovette dimettersi da ogni incarico ufficiale. Questione di sicurezza nazionale, si disse. Il pretesto? I suoi legami giovanili con ambienti della sinistra radicale – per l’Fbi era una spia sovietica. Ma la verità è un’altra: era intollerabile che il più insigne scienziato del suo tempo, immortalato dalle copertine di “Life” e “Time”, sostenesse la necessità di un accordo internazionale per il disarmo.

La modernità inizia, dunque, quando alla fede nella provvidenza divina abbiamo sostituito la fede nel progresso, riposto interamente nelle nostre mani. Tuttavia, troppo spesso quella promessa di redenzione terrena ci appare tradita dalla storia. Dopo la meraviglia, ecco tutto il nostro disincanto. «Dio è morto», aveva annunciato Nietzsche. Ma con la morte di Dio, non abbiamo ucciso la nostra inestinguibile smania di trascendenza: di un senso ultimo dell’esistenza. Tolstoj sosteneva che la scienza non dà alcuna risposta alla sola domanda fondamentale: che cosa dobbiamo fare? Come dobbiamo vivere?

È tutto qui il dramma dell’uomo moderno, vacillante tra un destino di integrale immanenza e un insopprimibile bisogno di trascendenza, tra la meraviglia e il disincanto. Ce lo ricordano i nostri interrogativi di oggi, quando sull’umanità sembrano incombere nuovi rischi capitali: le catastrofi climatiche, la barbarie della guerra e lo spettro dell’arma nucleare, la proliferazione di tecnologie che possono mettere in scacco il libero arbitrio e la capacità di discernere il vero dal falso.

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