venerdì 8 febbraio 2019
Un’antologia rilancia l’opera dell’autrice latinoamericana premiata con il Nobel nel 1945: un’epopea nella quale il paesaggio del suo Cile assume il valore di un’origine mitica
La poetessa cilena Gabriela Mistral (1889-1857)

La poetessa cilena Gabriela Mistral (1889-1857)

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Ni lenta ni trascordada ni perdida: strano che una poesia tanto vitale, tanto disponibile agli imprevisti e ai rischi dell’esistenza com’è appunto quella di Gabriela Mistral si lasci riassumere in una triplice negazione. «Né intorpidita né smemorata né persa», traduce Matteo Lefèvre, al quale si deve la selezione e la versione delle «poesie scelte» che Marcos y Marcos propone sotto il titolo complessivo di Canto che amavi. Del resto è proprio in questo testo (inizialmente compreso in Torchio del 1954) che compare il verso che abbiamo citato e nel quale a essere negata è in effetti la negazione stessa. Che cosa, infatti, può sfuggire al sonno, all’oblio e all’intorpidimento se non la volontà di prendere la parola, di chiamare la realtà per nome, di ascoltare e ricordare?

La volontà, ecco. E l’ispirazione, un’ispirazione sorgiva, a volte addirittura tempestosa. Sono due forze che rischierebbero di entrare in conflitto e che invece nell’opera di Gabriela Mistral trovano, fin dal principio, uno straordinario punto di equilibrio. Forse è per questo che, con il passare del tempo, i suoi versi conservano un’immediatezza non sempre riscontrabile in altri poeti della stessa generazione. Perfino Pablo Neruda – cileno come lei, prima suo amico e poi suo erede, come lei vincitore del Nobel per la letteratura – oggi ci arriva a tratti come attraverso la foschia del passato. Non è in questione la grandezza, si capisce, ma il sedimento che il tempo deposita su alcune parole e su altre no.

Certo, Neruda fu più apertamente politico e spesso fieramente ideologico rispetto alla Mistral, la cui poesia non si riduce però alle cadenze di un intimismo consolatorio. La dimensione femmini-le, in lei, si manifesta come sentimento dell’origine, in senso materiale non meno che spirituale. «Madre » è, non a caso, una delle parole che più ricorre anche nell’antologia allestita da Lefèvre, fin troppo essenziale sul piano degli apparati, ma accompagnata dall’originale spagnolo e da una nota nel quale il traduttore dà conto della difficoltà di muoversi all’interno di un universo poetico estremamente complesso per impianto metrico e struttura ritmica (nella trasposizione italiana è il sistema delle rime a essere parzialmente sacrificato o, meglio, rimodulato, così da evitare un’impressione di meccanicità).

«Cordigliera delle Ande, / Madre che giace e Madre che avanza», recita l’incipit di una delle poesie più caratteristiche, Cordigliera, proveniente da Taglio del bosco, il libro che nel 1938 sancisce in maniera definitiva la statura poetica della Mistral. Nata a Vicuña, in Cile, nel 1889, si chiamava in realtà Lucila de María del Perpetuo Socorro Godoy Alcayaga, un nome altisonante che nasconde l’appartenenza alla piccola borghesia di provincia. Genitori entrambi insegnanti, una sorella maggiore che è maestra a sua volta e che le fa da precettrice, avviandola verso una carriera nelle scuole rurali dalla quale la ragazza si emancipa abbastanza presto.

Lo pseudonimo escogitato per firmare i suoi versi deriva dalle generalità degli autori più ammirati, ossia Gabriele d’Annunzio e il provenzale Frédréric Mistral. In una prima fase il prestigio come poetessa deriva principalmente dai Sonetti della morte composti in memoria del fidanzato suicida, Romeo Ureta Carvajal («Dal freddo nido in cui gli uomini ti adagiarono, / io ti deporrò in terra umile e soleggiata», traduce Lefèvre). Da lì a breve, sostenuta dall’apprezzamento della critica e dal favore dei lettori, Gabriela Mistral comincia a ottenere incarichi sempre più importanti non solo in ambito scolastico, ma anche in sede diplomatica, con frequenti viaggi e soggiorni internazionali che la portano a vivere anche nel nostro Paese («rocca ligure di Portofino: / mare italiano, mare italiano!», si legge in Acqua).

Lentamente, ma in modo sempre più riconoscibile, la sua poesia acquisisce i connotati di un’epopea nazionale, sia pure di un Cile più idealizzato nella sua consistenza mitica che raffigurato nelle sue contraddizioni sociali. «Erba immensa e indifesa, / solo silenzio e dorso, / palpitante regno vivo, / Patagonia verde o bianca, con un vento di bestemmia / e pentimento se tace, / patria che onoro con pianto», scandisce una sequenza di Poema del Cile, una delle opere postume uscite sotto la revisione della scrittrice statunitense Doris Dana, che della Mistral fu compagna dalla seconda metà degli anni Quaranta. Prima autrice latino-americana a ricevere il Nobel nel 1945, la poetessa muore a New York nel 1957, ormai universalmente acclamata come una delle voci più rappresentative e popolari del Novecento letterario.

I versi riuniti in Canto che amavi riescono a sintetizzare in modo convincente lo svolgersi della parabola umana e artistica di Gabriela Mistral. Si parte con le composizioni tratte dal Desolazione, il libro del 1922 che proietta l’autrice in una prospettiva cosmpolita e nel quale il territorio della Patagonia viene già rivisitato in chiave fortemente simbolica (si pensi all’Albero morto: «Del bosco quello arso fu lasciato / per scherno, il suo fantasma»). Tenerezza, di due anni successiva, è invece la raccolta nella quale comincia ad affiorare con maggior evidenza la capacità, tipica della Mistral, di fondere canto e racconto, in un’epica dimessa solo in apparenza, perché «muore la storia del mondo / quando muore il narratore». Della centralità di Taglio del bosco si è già fatto cenno: qui si trovano molte poesie imprescindibili, come Assenza («Va via da te il mio corpo goccia a goccia. / Va via il mio viso dentro un olio sordo; / vanno via le mie mani in piombo fuso: / vanno via i piedi in due tempi di polvere») oppure Cose («Cerco un verso che ho perduto, / che a sette anni mi hanno detto. / Fu una donna facendo il pane, / la sua santa bocca vedo»).

Ma anche in Torchio non mancano i testi memorabili, tra cui spiccano i ritratti delle «donne folli»: Quella che cammina («La stessa strada, quella che va a Est, / lei prende anche se la chiama il Nord / e la luce del sole altre gliene offre / e le conosce, percorre la Unica»), La abbandonata (»Adesso voglio imparare / il paese dell’asprezza, / disimparare il tuo amore / che era la mia sola lingua, / come fiume che scordasse / letto e corrente e rive») e altre ancora. «Mamma, tutto ciò che tu / stai narrando è una fiaba?», domanda il piccolo Juan di Araucarie, in Poema del Cile. «Grandi verità a volte / e altre volte sterili», risponde la madre. «Dammi allora di entrambe; / però dimmi quando è fiaba », conclude il bambino. Alla poesia non si può chiedere altro: distinguere la realtà dal sogno e contemplarla così com’è, «né intorpidita né smemorata né persa».

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