mercoledì 17 giugno 2015
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​L’idea del tragico in Gabriel Marcel è nata all’inizio della sua produzione teatrale, che ha preceduto, sia pure di poco, le prime note del Journal métaphysique. Nella prefazione a Le seuil invisible, del 1914, che raccoglie in un volume i suoi due primi drammi, La grâce, in cinque atti, e Le palais de sable, in quattro, egli li presenta come dei "drammi d’idee", che "si muovono nell’ambito del pensiero metafisico e tuttavia non sono in nessun modo dialoghi filosofici". Essi contengono le ultime antinomie che lo spirito scopre riflettendo sopra di sé: "il tragico di pensiero che si realizza direttamente nel solo ambito che merita di essere chiamato la vita: ossia nella coscienza". Perciò il pubblico a cui si rivolgono è composto di "coloro che di fronte ai grandi abissi della vita interiore hanno provato il brivido dell’infinito e per i quali le Idee non si pongono solamente come bagliori astratti sulle cime più spoglie della riflessione, ma penetrano fino al midollo della vita per infonderle quel patetico eterno, fuori dal quale non c’è posto se non per le contingenze dell’aneddoto". Non è il caso di discutere qui se questo progetto potesse davvero trovare un’espressione teatrale o se fin dall’origine non presupponesse un’integrazione di questa nel registro di un linguaggio non rappresentabile sulla scena. In effetti, il teatro di Marcel non è un teatro che è nato da idee filosofiche - com’è avvenuto certamente di alcune celebri pièces di Sartre -, ma piuttosto è il progetto di un’analisi dell’esistenza che si esprime inizialmente nella creazione di situazioni reali e di tensioni tragiche da cui, in un altro modo del pensiero, quando il sipario sarà calato sull’ultima scena, si genererà una filosofia. Non è un teatro a tesi, ma il porsi di alcune domande che emergono negli incontri di personaggi reali e che avranno una risposta o un chiarimento, se mai potranno averli, soltanto fuori dalla scena, in quel metodo del filosofare come pensiero pensante e non come pensiero pensato, in quella filosofia intesa come "una specie di pericolosa e perpetua acrobazia", che sarà appunto la filosofia dell’esistenza nella diaristica e nella saggistica di Gabriel Marcel. Qualcuno gli ha rimproverato un uso improprio dell’espressione "teatro d’idee", ma è ben chiaro che per il Marcel drammaturgo le "idee" sono i personaggi reali "strappati dalla pura contingenza dell’aneddoto": tanto reali da non essere "né eroi né esseri d’eccezione", ma, come il "Singolo" di Kierkegaard, uomini comuni "che non si distinguono dalla media se non per una chiaroveggenza interiore più acuta che permette loro, non propriamente di analizzarsi, ma di cogliere e di condensare in un’intuizione ciò che, per uno sguardo meno penetrante, resterebbe nello stato di polvere di coscienza sparsa e inafferrabile".In questo contesto di poetica teatrale il "tragico di pensiero" che il Marcel persegue nell’impianto drammatico della sua opera è ravvisabile nella situazione di fondo in cui si vincolano i conflitti dei suoi personaggi, così da porsi essenzialmente come conflitti del significato che ciascuno di essi riesce infine a cogliere o a intravedere della propria esistenza. Ciò che è veramente tragico nella vita dell’uomo, al di qua e più ancora della mors ultima inimica, non è l’insorgere della discordia che spezza legami che si illudevano di essere infrangibili, non è neppure l’isolamento o la solitudine demoniaca di un’invincibile incomunicabilità, ma più profondamente è l’accorgersi brutale di "avere sbagliato tutto", di aver vincolato la propria esistenza ad un senso che alla fine si smaschera come l’illusione maniacale di un pazzo assorto nei propri fantasmi, come "una storia narrata da un idiota". L’essenza del tragico, a cominciare da Edipo, è il conflitto delle interpretazioni.Nel realismo demitizzato della borghesia cittadina del primo Novecento e via via nei decenni delle trasformazioni rapide del modo di pensare e di vivere, operate nella civiltà della tecnica, i personaggi dei drammi marceliani sono coinvolti in una certa irriducibile ambiguità della conoscenza di sé.Nel dramma La grâce è messo in scena un conflitto che finisce col diventare un abisso di separazione sul piano spirituale tra due coniugi: Françoise, una giovane donna moderna, colta, rigorosamente razionalista e piena di passione, e il marito, Gérard, che si è convertito al Cristianesimo in seguito alla tubercolosi che l’ha colpito poco prima del matrimonio. L’interpretazione di questa crisi mistica del fidanzato, che finisce col lasciarsene invadere in tutte le espressioni della sua maniera di essere anche dopo il matrimonio, voluto ad ogni costo dalla giovane innamorata, non offre alcun dubbio per Françoise: è una conseguenza della malattia, è la ricerca surrogatoria in un Dio immaginario di ciò che la vita rifiuta a Gérard. Il Marcel, commentando questo suo primo lavoro in una lezione del suo Corso di Harvard del 1961, dice che il suo intento era di "far apparire l’ambiguità di una situazione che comporta due letture differenti e irriducibili: quella dello psico-fisiologo materialista e quella dello spirito religioso per il quale la malattia, ben lungi dall’essere una causa, è un mezzo provvidenziale o un’occasione che la libertà creatrice del soggetto mette al servizio della Fede". Non è il caso di seguire qui le vicende del dramma, ma è importante rilevare che il tema delle "due letture differenti e irriducibili" di quell’ambiguità di fondo che è la nostra esistenza, è il Leitmotiv non soltanto del teatro, ma anche della riflessione filosofica del Marcel, dalle prime note del Journal métaphysique - quasi contemporanee alla pubblicazione de La grâce - sul décalage tra l’"Io penso"  e  l’"Io credo", alla distinzione, in Être et Avoir, tra "problema" e "mistero", tra "riflessione di primo grado" e "riflessione seconda", ossia tra il pensare per costruzioni oggettuali ed inferenze problematiche e il pensare raccogliendosi in un’intuizione globale e metaproblematica. Non si tratta infatti di due prospettive della nostra condotta mentale, buone da usare, l’una e l’altra, come chiavi ermeneutiche del nostro essere incarnato, ma di due modi duramente inconciliabili di dare alla nostra vita un senso, che può rivelarsi infine alienante ed inconsistente, come "Il palazzo di sabbia" dell’ideologia cattolica del deputato Roger Moirans, o puramente mistificatorio come la "bontà professionale" del pastore Claude di Un homme de Dieu, o quella caricatura di anima che era la vita di Christiane nel Monde cassé, dissipata nel divertissement della società parigina degli anni Trenta. La gran parte dei drammi di Gabriel Marcel - e non importa che soltanto quattro o cinque di essi abbiano avuto un loro successo in tempi diversi e davanti a pubblici meno opachi o distratti - è ispirata dalla medesima idea su cui si svilupperà la sua ontologia dell’invocazione: che il tragico è la caduta dell’esistenza sotto il primato della categoria dell’"avere", o come egli dice, dell’esprit de l’avoir, che le impedisce di riconoscersi come reciprocità creativa nel suo rapporto col mondo. "Le radici metafisiche del pessimismo sono le stesse di quelle della indisponibilità".   Una metafisica dell’essere, non dell’essere come oggetto, ma dell’essere che siamo noi stessi nel metaxý [mezzo] della intersoggettività, potrà avere il suo senso autentico soltanto nella misura in cui noi riusciamo ad operare una specie di torsione violenta sopra la categoria pratica che fa del mondo un repertorio di oggetti e di strumenti della nostra possessività. Questa torsione può nascere soltanto all’interno di un’esperienza tragica. È un modo di esorcizzarsi dalla disperazione che è la coscienza e l’espressione più flagrante di un mondo costruito sopra l’idea dell’avere.
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