sabato 10 settembre 2016
La vita FUTURISTA del cinema
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Quando F.T. Marinetti lo conobbe, inserendolo nel gruppo dei Futuristi, gli cambiò subito il nome, «Ti firmerai Ginna, in onore alla ginnastica futurista»: era nato conte, Arnaldo Ginanni Corradini (Campiano 1890 - Roma 1982). Questo giovane, riservato ma deciso, colpiva per la sua curiosità nello sperimentare tutte le arti: come pittore, con Nevrastenia (1908), “fondava” l’astrattismo prima di Kandinskij e Mondrian, a 18 anni. Inoltre, era fotografo, scrittore ( Le locomotive con le calze, 1919), saggista e, in quell’indimenticabile estate, per l’Italia, del 1916, un fuoco d’artificio d’idee filmiche. Così, mentre le truppe austro-ungariche- slave retrocedevano (momentaneamente) nella quarta battaglia dell’Isonzo e il fante Giuseppe Ungaretti rigenerava la lirica italiana stampando (a Udine, grazie a Ettore Serra) i drammatici versicoli espressionisti, impastati col sangue delle trincee, del Porto sepolto, Ginna, nel giro di poche settimane, girava un film, Vita futurista, a Firenze, coinvolgendo tutto il gruppo degli artisti del periodico “L’Italia Futurista” (Marinetti, Balla, Corra, Settimelli, Carli, Neri Nannetti, Venna).

 

Non solo: terminato il film era l’ideatore del Manifesto della cinematografia futurista, firmato anche da Marinetti, Corra, Settimelli, Balla e Chiti. Grazie alla testimonianza dello stesso Ginna (e alle ricostruzioni di studiosi quali Mario Verdone e Fagiolo dell’Arco), oggi sappiamo di cosa parlava Vita futurista (1200 metri, circa 50’), ufficialmente “disperso” dal secondo dopoguerra. Vita futurista era composto, ricorrendo a un linguaggio a noi vicino, di diversi “corti”, tale fa farne il primo esempio di “film a episodi” del cinema mondiale, legati tutti dai temi della poetica futurista: nonsense, alogicità, parodia della vita borghese, velocità, ecc.

 

A prodotto finito la lunghezza dell’opera scese a 990 metri, in quanto l’episodio Perché Francesco Giuseppe non moriva venne soppresso dalla censura. Possiamo suddividere i corti in tre sottogeneri: alcuni sono “scene di vita provocate”, oggi li chiameremmo mockumentari; altri “propagandistici”, qualcuno, infine, ascrivibile al cinema “astratto”. Alla prima tipologia appartiene Scena al ristorante di Piazzale Michelangelo: qui un vecchio signore (il pittore Lucio Venna, abilmente truccato) era reso oggetto di “bullismo adulto” dagli altri futuristi, tanto da attirare la difesa di un elegante e raffinato turista inglese, stile Camera con vista. Episodi di “propaganda futurista” (oltre al ricordato Perché Francesco Giuseppe…), erano Come dorme un futurista e come dorme un passatista e Cazzottatura futurista oltre a Caricatura dell’Amleto simbolo del passatismo (realizzato con specchi concavi e convessi).

 

Sul versante della pura ricerca visiva si collocava l’episodio Danza dello splendore geometrico, con sovrimpressioni e dissolvenze, anticipatore dei film d’avanguardia di Léger, Ray, Dulac e Richter. Ginna ricorda che Vita futurista, film senza sceneggiatura, girato (con una «mac- china Pathé acquistata con propri denari ») improvvisando ogni giorno, gli costò molta fatica e un accumulo notevole di stress (riprese, sviluppo, montaggio), accresciuti dal comportamento di alcuni dei suoi sodali (Marinetti, Balla, Settimelli, Carli, Neri Nannetti) «molto indisciplinati », i quali consideravano il set una continua festa goliardica (mangiate, bicchierate, discussioni; «dormite fino a tarda mattinata, assenze improvvise», ecc.) “interrotta” dalle riprese. Naturalmente, Ginna, pur esperto di fotografia, non possedeva né i mezzi né l’esperienza cinematografica del conte Giulio Cesare Antamoro ( Pinocchio, 1911) o di un Giovanni Pastrone ( Cabiria, 1914), per non scomodare D. W. Griffith.

 

Quindi, Vita futurista, con pochi esterni e il ricorso a un teatro di posa, e nonostante gli attori si agitassero “futuristicamente”, dovette risultare in gran parte teatrale (gli storici direbbero “autarchico”): con un montaggio dei punti di vista, insomma, limitato. «Il film (dopo il fiasco di Firenze, nda) – ricorda Ginna – fu dato in altri cinema di Roma, ma fu necessario sospendere le proiezioni, perché il pubblico gettava oggetti, sassi ecc. contro lo schermo (…)». Sempre il pittore-regista ricorda che, del resto, alle serate futuriste, ogni città reagiva con la propria cultura: «A Bologna lanciavano tagliatelle al ragù; a Napoli arance; a Pesaro triglie e sogliole fritte, mentre il Principe Altieri, a Roma, lanciava polvere di carbone negli occhi e pezzi di antracite». 

 

Comunque, l’esperienza del set stimolò la ricerca teorica di Ginna. Infatti, nell’agosto del 1916, come anticipato, egli stendeva il Manifesto della cinematografia futurista che, supervisionato da F. T. Marinetti, veniva pubblicato l’11 settembre, a Milano. Nel Manifesto (dopo un prologo in cui si ribadisce la necessità della guerra «igienica»: qui si riconosce lo zampino ideologico di Marinetti) è ben visibile l’innovativa concezione estetica di Ginna, superiore, sul versante visivo (pittura e cinema), a quella di Marinetti. Infatti, leggiamo: «(…) nel film futurista entreranno come mezzi di espressione gli elementi più svariati: dal brano di vita reale alla chiazza di colore dalla linea alle parole in libertà, dalla musica cromatica e plastica alla musica di oggetti (…)». E, più specificatamente, saranno valorizzate le «analogie cinematografiche», le azioni simultanee e la compenetrazione-compressione della dimensione spazio-temporale. Sulla “preveggenza” teorica del Manifesto molto si è scritto.

 

È stato osservato, per esempio, come lo stile narrativo di S.M. Ejzenštejn, basato molto sull’analogia/metafora cinematografica (si pensi a Sciopero, 1925) non sia altro che la traduzione registica dei principi del Manifesto. Mentre lo scardinamento del tempo logico e sequenziale, anticipatore per certi versi, persino della successiva rivoluzione joyciana (Ulisse, 1922), lo ritroveremo nei capolavori del Novecento cinematografico: da «Hitchcock, passando per Resnais e Robbe-Grillet, sino a Bergman» ( Verdone).

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