mercoledì 11 aprile 2012
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​Sarà perché la crisi economica ci obbliga a riflettere, per una volta tanto, liberi dalla frenesia degli avvenimenti, sarà perché il processo di globalizzazione del quale siamo ben consapevoli ci aiuta ad uscire da un secolare quanto naturale provincialismo, sarà perché facciamo più fatica a vedere quello che si sta davanti, anche se lo riteniamo a un palmo dal nostro naso, sta di fatto che da un po’ di tempo a questa parte inviti a riconsiderare la storia in un’ottica globale sia dal punto di vista geografico che da quello cronologico si moltiplicano. Eppure già all’inizio del Novecento la scuola delle Annales ci aveva ammonito della necessità di osservare, soprattutto riguardo ai fatti economici e in presenza di situazioni di crisi, a partire dalla “lunga durata”, essendo altrimenti impossibile fornire spiegazioni esaustive su quanto è avvenuto e sta avvenendo su questo minuscolo granello di terra e di acqua vagante nello spazio che è il nostro pianeta.Se vogliamo, ad esempio dare un’interpretazione convincente delle dinamiche sottese alla crisi nella quale siamo immersi, non possiamo certamente considerarla solo effetto di subprime, derivati o titoli tossici, ma neppure limitare lo sguardo all’Occidente di 50 o 100 anni fa. Noi occidentali, per giunta, siamo naturalmente portati a considerare punto d’avvio dell’economia, quasi uno spartiacque tra “preistoria” e storia, quel momento da cui tra origine il nostro arricchimento relativo rispetto al resto del mondo: quella rivoluzione industriale che, scardinando gli equilibri precedenti, ci ha posto in una posizione di primato. Il “resto del mondo” da allora ci appare sempre più come residuale.Ma quale residuale se, nonostante l’avanzata impetuosa del modo occidentale di fare economia, continua ad essere gran parte della popolazione del pianeta? È vero, infatti, che la ricetta che come un miraggio ha promesso a tutti l’avvento di un “mondo nuovo” (capovolgere cioè la gerarchia naturale dei settori produttivi mettendo al primo posto il “secondario” o il “terziario”) è sempre più adottata, ma a quale prezzo in termini globali?Di fatto solo una parte del mondo si è da tempo resa conto di aver aggirato la “trappola di Malthus”, quel meccanismo infernale cioè, che da sempre ha impedito alla popolazione di crescere costantemente, perché le risorse, non appena le bocche da sfamare aumentavano, risultavano insufficienti. Ed ecco che, dopo la crescita, inesorabile veniva la decrescita inutilmente contrastata da un tasso di natalità elevatissimo.La consapevolezza dell’uomo occidentale della scomparsa della “trappola” è segnalata proprio dalla graduale e volontaria diminuzione delle nascite. Ma se tanta strada con l’economia “nuova” l’Occidente ha fatto, se ha potuto imbarcare (forse suo malgrado) parti sempre più grandi di popolazioni del mondo, non lo deve solo a fattori di sviluppo endogeni. Certo, scienza, tecnologia e innovazioni di varia natura hanno fatto molto, ma di più ha fatto una straordinaria, sempre più sofisticata capacità di trasferire risorse. Si è trattato il più delle volte di uno scambio eticamente inaccettabile perché asimmetrico e unidirezionale.Un ruolo fondamentale in tutto ciò ha svolto il capitalismo finanziario che poco crea e molto ridistribuisce. Senza voler qui demonizzare uno degli elementi più dinamici del modo di produrre moderno, naturalmente destinato, per usare una definizione di Fernand Braudel a operare chez autres, cioè in casa dell’economia reale, si deve notare come abbia sempre più operato chez soi, seguendo cioè logiche sue proprie.Così lo scambio (ma sempre in modo deleteriamente asimmetrico) ha permesso all’“eresia” occidentale di alimentare una capacità propulsiva che non le veniva solo dal suo interno e neppure da un’equilibrata “divisione del lavoro” con aree del mondo produttrici di materie prime, ma dall’acquisizione, a basso prezzo, di quei beni che l’hanno fatta crescere.Così una parte del mondo è uscita dall’atavica logica di sussistenza, mentre l’altra (quella ai nostri occhi “residuale”) ha continuato a combattere per sopravvivere come individui e come popoli. Non è forse questo il significato più profondo dell’altissimo e disperato tasso di natalità presso i più poveri? Perché non lo si può interpretare come il concreto grido di dolore di chi legittimamente anela a lasciare una traccia viva del proprio passaggio sulla terra?Vi è una soluzione a tutto ciò? Forse sì o forse no; in ogni caso il primo passo è quello di comprendere. Molti modelli interpretativi di storici lungimiranti (l’ultimo Immanuel Wallerstein, ad esempio, positivamente contaminato dalla personalità scientifica di Fernand Braudel) da anni si sforzano di mostrare come la storia dell’economia debba essere osservata con un respiro di portata ampia e planetaria. Le economie-mondo descritte dallo studioso americano ci appaiono come tasselli di un mosaico di ampie dimensioni solo se le guardiamo da lontano. Solo in quel caso possiamo vederne gli sbocchi finali in quella economia mondiale già descritta nel primo Ottocento da Simonde de Sismondi.Attenzione, però, se l’economia totalmente globalizzata è ancora di là da venire, il mondo globale esiste da sempre: o esiste almeno da quando Plinio il Vecchio definiva l’Oriente «la tomba dell’argento», o da quando i Reales de plata spagnoli (antesignani del nostro dollaro) scorrazzavano come moneta di scambio ovunque… E, a proposito di “visione globale”, è forse il caso di superare anche la parcellizzazione artificiale tra le diverse scienze: lo suggeriva qualche anno fa il Nobel per la chimica, Ilya Prigogine (purtroppo non più tra noi) quando invitava a far uscire il concetto di entropia dal riduttivo ambito del secondo principio della termodinamica.Se il benessere e la crescita dell’Occidente (sia del Vecchio che del Nuovo possiamo dire oggi in parallelismo con le due Indie dell’età moderna) sono dovuti in gran parte a trasferimenti asimmetrici dal resto del mondo (che si riduce sempre più) si arriverà pure prima o poi ad una fase di stallo. Il Vecchio Occidente potrebbe gradualmente scivolare verso “il resto del mondo” in un rovesciamento di ruoli dolorosissimo. In mezzo ci sarebbe una fase di caos sistemico, conseguente all’esaurimento del processo propulsivo iniziato secoli fa, che non riusciamo neppure a immaginare. Oppure la strada potrebbe essere quella, molto difficile ma praticabile, di ristabilire volontariamente e collettivamente su scala planetaria l’equilibrio originario, costruendo, passo dietro passo, un’economia ecologica, autopropulsiva, capace di riservare al “primario” quel ruolo che gli spetta di diritto. L’obiettivo finale sarebbe in quel caso la consapevolezza di poter debellare finalmente la trappola di Malthus, per tutti, e senza innaturali forzature.
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