domenica 16 gennaio 2011
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«Più colore»: quante volte i giornalisti si sentono ripetere questa frase dal proprio caposervizio. Il pezzo è accurato, ci sono i fatti, le fonti hanno confermato. Eppure: «Mancano le immagini», «non vedo i personaggi». Un bel reportage, un’inchiesta solida, ma fredda. Alla fine ce l’ha vinta il capo, ma il cronista conserva il diritto di mugugnare, e pensare: «Ci manca solo che mi chieda di disegnare». Bene; se lo facesse, farebbe quello che fanno autori come Joe Sacco, Ted Rall, o Igort: giornalisti, sì, chi più chi meno, ma prima di tutto fumettisti. Protagonisti di quello che è stato battezzato comic journalism, l’ultimo ircocervo editoriale di genere che si sta facendo spazio nel panorama del fumetto; o, meglio, della graphic novel. Nato come reazione degli autori underground anni Settanta alle gabbie standard degli albi, è il fumetto nella sua piena evoluzione, che diventa romanzo, e che da Will Eisner in poi si riscatta da decenni di occhiate snob di chi pensava di segregarlo nel retrobottega della cultura di serie B, definita con sprezzo "pop". In Italia l’ondata è inarrestabile e, di fatto, la graphic novel ha sdoganato il fumetto per platee di lettori più ampie, perché ne ha frenato la serialità, insita nei comics, ha allungato le storie, divenute auto-conclusive, e ha dato spessore ai personaggi. Il volume è lievitato, e il formato è diventato simile ai libri. Il passaggio ricorda quello dal poema al romanzo. E una volta incassato il riconoscimento, la graphic novel ha cominciato a figliare. Generi e sottogeneri. Non solo fantasy e supereroi, ma vita reale, storia e cronaca. La stessa fame di realtà che oggi fa vendere i libri-inchiesta dei giornalisti, e che infine ha contaminato il comic journalism, il giornalismo a fumetti. Tendenza che ha radici antiche ma cittadinanza da un ventennio, da quando cioè sulla scena si è presentato un giovane maltese naturalizzato americano, Joe Sacco, che con Palestina ha trasformato il suo taccuino in uno storyboard, i suoi schizzi in un documentario di grande efficacia. Sacco è prima di tutto un reporter, di formazione – laureato in giornalismo all’Università dell’Oregon – e per sensibilità, metodo, occhio. Racconta quello che ha visto, nei luoghi in cui i fatti si verificano. Per mesi ha vissuto nei Territori occupati, dove è tornato per la sua ultima graphic novel, Gaza 1956 (Mondadori), sulla strage dei civili a Khan Yunis, durante la guerra tra Egitto e Israele. Sacco ha raccolto le testimonianze dai sopravvissuti e verificato i documenti. Ma la sua è anche una ricostruzione viva, capace di restituire al lettore il contesto, l’ambiente, le facce, come un grande reportage. «A partire dai libri di Sacco passando per l’attentato alle Torri gemelle raccontato da Art Spiegelman, gli autori di fumetti hanno dimostrato come le graphic novel siano perfette per fare giornalismo di inchiesta», spiega Luca Crovi, conduttore di Tutti i colori del giallo, redattore alla Sergio Bonelli, sceneggiatore e colui che ha inciso la definizione di graphic novel sulla Garzantina: «L’unione fra testi e disegni permette un linguaggio diretto, semplice, che non può prescindere da una ricca documentazione. Condensa in poche istantanee gli eventi e lascia aperti certi interrogativi drammatici». Quindici anni fa Sacco è volato nella Bosnia devastata dalla pulizia etnica: Gorazde e Neven (The Fixer) sono altri due capisaldi del giornalismo disegnato che sono valsi all’autore il titolo di pioniere del genere. Come ha ammesso Igort, al secolo Igor Tuveri, Sacco è stato fonte d’ispirazione anche per il suo Quaderni ucraini (Mondadori), la prima parte di un dittico dedicato ai Paesi dell’ex Unione Sovietica. Tra i maggiori cartoonist italiani e fondatore della Coconino Press, un faro nell’editoria della graphic novel, anche Igort ha vissuto per due anni in Ucraina, viaggiando fino in Siberia e collezionando un materiale umano e storico sterminato (per il prossimo Quaderni russi e siberiani). Era partito sulle orme di Cechov, e si è ritrovato davanti alla memoria di un popolo cementificata su uno degli olocausti dimenticati dello stalinismo: l’Holodomor, il genocidio per fame indotta che ha sterminato tra 7 e 10 milioni di ucraini. «È un’esplorazione sul campo – la definisce Igort – per capire cos’è rimasto del sogno comunista. Storie vere, che ho disegnato con l’aiuto di interviste, incontri con i sopravvissuti, documenti dei servizi segreti, filmati». Eccolo il reporter dei fumetti: non ha invadenti telecamere o microfoni, ma solo una matita in tasca; non ha scritto "stampa" in faccia e non ha l’urgenza di mandare il servizio. Sacco lo definisce slow journalism: c’è tutto il tempo per capire e interagire, senza l’ansia da notizia a tutti i costi. Questo ti permette di addentrarti, anche per mesi, dove altri non riescono, in zone schiacciate dalle dittature: il canadese Guy Delisle è uno dei pochi ad essere riuscito a raccontare dall’interno un Paese ai confini del mondo come la Corea del Nord, in Pyongyang. Una forma di puro reportage illustrato ripetuta con Shenzen, sulla Cina, e con Cronache birmane. Anche Ted Rall, giornalista americano finalista al Pulitzer, per una decina di anni ha girato l’ex Unione Sovietica, in Asia centrale, per capire cosa ci fosse dietro ai tragitti geopolitici di gas e petrolio. Petrolio, pallottole e potere e Stan Trek sono il risultato di questa lunga inchiesta: un collage di fotografie, articoli e fumetti, in Italia pubblicati dalla Becco Giallo. La casa editrice che ha per vocazione la graphic novel giornalistica, fondata nel 2005 da Federico Zaghis e Guido Ostanel, con un nome che omaggia il settimanale satirico antifascista costretto a chiudere nel 1926. Ha collane dedicate alla cronaca nera, ai misteri italiani, a biografie di grandi personaggi ed è in libreria in questi giorni con fumetti sulla tragedia della Moby Prince, sugli omicidi di Mauro Rostagno e di Anna Politkovskaja: «C’è tanta voglia di verità da parte dei lettori, di capire – spiega Zaghis –. E noi abbiamo provato a intercettarla, su argomenti che restano radicati nella memoria collettiva del Paese». Lo stragismo, per esempio, con un volume dedicato a piazza Fontana in occasione dei quarant’anni, o un altro sulla stazione di Bologna. Vicende piene di zone d’ombra, come Ustica, il delitto Pasolini, l’omicidio di Ilaria Alpi. O fatti di violenta attualità come il G8 di Genova e l’incidente ThyssenKrupp. «Ogni graphic viene seguita come un’inchiesta giornalistica, con continuo rimando alle fonti. Gli sceneggiatori sono per lo più giornalisti, come Marco Rizzo che ha scritto il libro su Peppino Impastato, e Francesco Barilli su piazza Fontana». Il successo? «Raccontare vicende complicate "semplificandole" attraverso il fumetto», aggiunge Zaghis, che riflette sulla possibilità che la graphic novel davvero possa diventare un mezzo d’informazione e di educazione per i più giovani, e non solo: «Molti insegnanti si sono rivolti a noi. Il volume su Impastato è stato adottato da scuole del palermitano, ma anche del trevigiano. Mentre quelli su Cernobyl’ e sul petrolchimico di Porto Marghera servono per parlare ai ragazzi di temi ecologici». Anche se i tempi di produzione della graphic novel sono più lunghi, l’impressione è che l’impostazione abbia qualcosa dei libri d’inchiesta orientati alla logica degli instant book d’attualità. È avvenuto così per il caso Stefano Cucchi, il ragazzo morto in in carcere: Non mi uccise la morte (Castelvecchi) attraverso le illustrazioni di Toni Bruno mostra le ultime ore prima di un insensato patibolo. Ogni tavola è un pugno allo stomaco, e nella resa di un’atmosfera da incubo Stefano ha gli occhi spenti. Il nero si staglia forte sul bianco e diventa il colore che rappresenta, più di qualsiasi articolo di giornale, il buio della giustizia.
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