giovedì 22 ottobre 2015
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In un suo saggio di appena cinque anni fa, l’allora cardinal Bergoglio illustrava alcuni concetti che, da Papa, ama ripetere e che mi sembra assumano un significato ancora più concreto se si pensa che sono stati pronunciati già quand’egli era pastore di una diocesi dell’America Latina, un vescovo che si rivolgeva alla sua gente cercando di infondere in essa una consapevolezza per nessuno scontata, sicuramente complice la superficialità, il disincanto, la delusione: l’importanza di essere e sentirsi “popolo”. C’è una differenza, è evidente, tra l’essere “abitanti” di una città e di una nazione e l’esserne “cittadini”, differenza che include l’inserimento in una dimensione sociale; e c’è una differenza tra l’essere “cittadini” e l’essere “popolo” [...]. Lo sguardo alla storia è vitale per recuperare e far maturare quel senso di “essere popolo” che non si risolve nella comprensione di un attimo, non si esaurisce in una definizione lapidaria o in un’immagine fotografica, ma esige un “processo” per lo svilupparsi del quale la progettualità futura e la stessa capacità di formulare scelte politiche richiedono di attingere continuamente al passato. Un passato da non rimpiangere nostalgicamente, da non assolvere o condannare integralmente; un passato da correggere e recuperare ma dal quale, sempre e comunque, imparare. Un passato da far riaffiorare alla memoria del cuore per poterne, con maggiore consapevolezza e libertà, rileggere la storia [...].  C’è, anzitutto, da guardare la questione dei “fucilati in guerra” dalla prospettiva di un mondo militare molto cambiato in questi cento anni. Un mondo – parlo della realtà italiana – che sembra aver fatto proprio, con grande serietà, il compito affidato dal Concilio ai militari, «servitori della sicurezza e libertà dei loro popoli» i quali, «se rettamente adempiono al proprio dovere, concorrono anch’essi veramente alla stabilità della pace» (Gaudium et spes, n. 79). Io stesso ne sono testimone: il contesto nel quale i militari italiani oggi operano è, più di altri, a servizio concreto dei valori di umanità, accoglienza, rispetto e cura, via privilegiata per costruire la pace. Penso solo – e credo che non si possa non pensarci – a quello che, grazie a costoro, l’intera ònazione italiana ha potuto fare e fa per il soccorso e l’accoglienza dei profughi e degli stranieri [...]. La generazione di militari che ha combattuto la Prima guerra mondiale, sia pure con un alto senso di servizio alla Patria, è maturata ed è nata una generazione di militari – a cominciare dagli ufficiali – ancora più consapevole che servire e difendere la Patria significa servire e difendere non i confini ma le persone umane; significa, potremmo dire, servire e difendere quel “popolo” in cui tutti ci riconosciamo e la cui identità non si disegna nel contrasto ma nella complementarietà e fraternità, con i propri connazionali e con gli altri popoli.  L’altra prospettiva da cui guardare gli eventi complessi di cui parliamo è quella di un tempo storico che registra una mutata sensibilità alla guerra, un desiderio di percorrere le vie del dialogo, della diplomazia, del confronto, del riferimento ad alcune autorità internazionali per risolvere conflitti di diversa natura. Ciononostante, il mondo rimane afflitto da quella che Papa Francesco ha definito una «Terza guerra mondiale a pezzi», resa più crudele da immagini che stanno diventando tristemente familiari: cristiani decapitati o arsi vivi nelle chiese, reporter e stranieri giustiziati, donne e bambini vittime di attentati massivi, motivati da accuse generiche e arbitrarie di tradimento dello Stato, della cultura, della religione… Pur essendo fuori discussione la differenza tra le situazioni storico-politiche, in quella che potremmo chiamare una “pedagogia dei segni”, studiare se si possa procedere a una riabilitazione di quei militari “ieri” ingiustamente condannati – con sentenze sbrigative o a scopo puramente dimostrativo – potrebbe rappresentare, “oggi”, un ulteriore segno di rifiuto della guerra e del modo di esercitare, in essa, una giustizia sommaria e, a volte, ingiusta [...].  Ecco, allora, una più radicale prospettiva di pace dalla quale rileggere la nostra storia: quella dello sguardo sull’uomo. Uno sguardo concreto sul numero di esseri umani che subirono in guerra pene più severe per i reati più comuni: indisciplina o automutilazione, libertà di parola o scrittura per lettera, resa o sbandamento, tradimento o quella diserzione per decretare la quale sembra bastassero appena ventiquattr’ore di ritardo. Reati singoli o collettivi, dettati da una vera e propria opposizione ideologico-politica alla guerra o, semplicemente, dalla paura che ha reso vittime coloro che cercavano di fuggire ma forse anche coloro che rimanevano a combattere in modo forzato. Rileggere questa drammatica pagina della storia dalla prospettiva delle persone ci obbliga a sentire appartenente al nostro popolo chi, in guerra, abbia obbedito combattendo ma anche chi, disertando, abbia inteso dire no alla guerra: è una via per essere e diventare popolo, riscoprendo i legami di fraternità che sono il germe della pace. Vorrei concludere la mia riflessione suggerendo un’ultima prospettiva da cui rileggere questa storia: il Giubileo della Misericordia, che avrà inizio tra meno di due mesi e non è soltanto un evento ecclesiale, da risolversi in una serie di celebrazioni. Il Giubileo, nella tradizione biblica, è una storia che, potremmo dire, si ferma, per interrogarsi sugli eventi passati e sulle scelte future nonché per compiere gesti nuovi, operati alla luce della giustizia e della misericordia, tra loro interdipendenti. È quello che facciamo, quasi fermandoci per rileggere una storia di guerra e di morte provando a inserirvi parole di condivisione e di perdono. Umanamente non è facile, ma è indispensabile che questo sguardo di misericordia si ampli sempre più, fino a diventare apertura a una giustizia che includa possibilità universale di salvezza, per i condannati come pure per i carnefici, di ieri e di oggi.  Sì, perdono e giustizia non sono in antitesi, questo vuole ribadire il Giubileo della misericordia e questo possiamo riscoprire anche noi. Andando alla radice antropologica del perdono, vi scopriamo infatti un gesto potente, capace di cambiare la vita di chi lo riceva e di chi lo elargisca; un gesto capace di cambiare la storia.  Serve perdono e serve giustizia per cambiare una storia di guerra in storia di pace, una storia di morte in storia di vita, una storia di paura in storia di coraggio. Perché ci vuole “coraggio” – lo ha ricordato il Papa proprio qualche giorno fa in piazza San Pietro – per «dire “no” all’odio», «opporsi alla violenza», compiere «gesti di pace» (Angelus del 18 ottobre). L’iniziativa di riportare alla luce la vicenda dei “fucilati”, per approfondirla e trovare soluzioni idonee a restituire la dignità alle persone, qualora essa sia stata lesa, sia un atto sociale nuovo, di giustizia, misericordia e perdono; sia un autentico gesto di coraggio e di pace che,  sempre più, ci fa “essere popolo”.
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