martedì 27 gennaio 2009
«Anch’io sono un sopravvissuto: a partire dal 1942 sono stato nascosto ed educato al cattolicesimo per quasi quattro anni in un piccolo seminario, a Montluçon»
COMMENTA E CONDIVIDI
Tra i maggiori specialisti mon­diali del nazismo, lo storico Saul Friedländer è autore di una dozzina di volumi. In Italia è appena stato pubblicato da Garzan­ti il suo Gli anni dello sterminio. La Germania nazista e gli ebrei (1939­1945) ( pagine 976, euro 43,00), pre­mio Pulitzer 2008. In Francia è scoppiata una polemi­ca in seguito alla proposta di affi­dare a ogni bambino di quinta ele­mentare il ricordo di un piccolo e­breo vittima della Shoah. Alla fine il progetto è stato scartato. Cosa ne pensa? «L’adulto sceglie la propria memo­ria, cosa ricordare e cosa dimenti­care. Ma credo che sia difficile im­porre un ricordo. E ancora più diffi­cile imporlo a un bambino. Vorreb­be dire imporgli un’identità, asse­gnargli un’idea che gli è estranea » . Come conservare allora la memo­ria della Shoah, quando stanno per scomparire gli ultimi sopravvissu­ti? «Una memoria non si può imporre. Si può semplicemente cercare di trasmetterla. Si possono allestire musei, mostre, scrivere libri… Ma non si tratta di trasmettere un ricordo fissato, ritualiz­zato… In Francia ogni paese ha il suo monumen­to ai caduti. Un tempo vo­leva dire qualcosa. L’11 novembre di ogni anno si facevano raduni… Oggi diventa una specie di ob­bligo, che ha perso ogni e­mozione. È un dato di fat­to. Non si può obbligare nessuno a conservare viva memoria degli e­venti, per quanto importanti. Ri­guardo alla Shoah, è significativo che ne resti viva memoria senza nessuno che la organizzi. Si prenda il romanzo di Jonathan Littell, Le benevole, che ha avuto vasta eco. Nessuno l’avrebbe immaginato. Del libro si può discutere, ma poco im­porta. C’è un giovane al suo primo romanzo. E migliaia di persone vi rinnovano la memoria della Shoah» . «Gli anni dello sterminio » dà una visione completa di quello che fu la Shoah. Come ha fatto? «All’inizio gli storici si erano con­centrati sulla macchina di distru­zione tedesca. Poi c’è stata, soprat­tutto in Israele, un’altra storiografia incentrata sull’esperienza ebraica della Shoah. A queste due storie an­davano ad aggiungersi storie locali, come i libri su Vichy e gli ebrei. Io ho cercato di integrarle tutte. Perciò ho dato ampio spazio ai diari inti­mi, alle lettere. La difficoltà consi­steva nell’impedire al lettore di per­dersi. La Shoah è stata un evento che ha interessato contemporanea­mente tutto il continente. Nel luglio 1942, ad esempio, la deportazione degli ebrei cominciava a Parigi, ad Amsterdam e a Varsavia. E prose­guiva dalla Germania verso i campi dell’Est. Ho cercato di riunire tutto in una sintesi che renda conto della diversità degli eventi e della loro si­multaneità». La scelta è stata influenzata dal suo percorso personale? «Forse gli andirivieni della vita mi hanno offerto questo approccio di­versificato, che mi fornisce una molteplicità di punti di vista. Sono nato a Praga. A partire dal 1942 so­no stato nascosto e educato al cat­tolicesimo in un piccolo seminario, a Montluçon, dove sono rimasto quasi quattro anni. Quel periodo mi ha profondamente segnato. Poi ho vissuto in Israele. Ho insegnato in Svizzera, in Israele e negli Stati Uni­ti. Grazie al mio girovagare riesco a vedere gli eventi da molte angola­zioni, a differenza di parte degli sto­rici della mia generazione». Ha passato quarantacinque anni a studiare la Shoah. Si sentiva in do­vere di farlo? «L’ho fatto per bisogno personale. Dalla fine della guerra al 1964 sono stato occupato da altre cose. Nel 1948 sono andato in Israele, ho fat­to prima il servizio militare e poi Scienze politiche. Sono diventato assistente di Nahum Goldmann, presidente del Congresso ebraico mondiale, prima che mi venisse l’i­dea di riprendere a studiare. E solo dopo il dottorato ho fatto ritorno alla mia esperienza personale. Ora il cammino è compiuto». Oggi sappiamo come avvenne il genocidio. Ma resta difficile dire perché. Lei lo spiega con un'anti­semitismo redentore' in Hitler. Di che cosa si tratta? «Nel caos che segue la sconfitta tedesca del 1918, Adolf Hitler spin­ge all’estremo le idee antisemite che già cir­colano. Afferma che la salvezza del mondo a­riano può realizzarsi solo con la scomparsa del nemico di sempre, dal suo punto di vista: "l’ebreo". "Scompar­sa", a quell’epoca, non vuol dire necessaria­mente "sterminio". Pensava piuttosto a una forma di e­liminazione degli ebrei dallo spazio tedesco, e poi europeo. Ma non a­veva un piano preciso. Era solo il capo di un piccolo partito. Quanto avvenne in seguito non fu una ne­cessaria evoluzione. Ci fu prima la segregazione, il tentativo di espelle­re gli ebrei dalla Germania. Ma quando scoppia la guerra nel Paese ci sono ancora trecentomila ebrei. E la Germania occupa una parte della Polonia dove si trovano oltre due milioni di ebrei. Si pensa di rinchiu­derli in un territorio dell’Est. Poi si formula il progetto di inviarli in Madagascar. Segue l’idea di con­centrarli nel nord della Russia. Ma quando si apre un altro fronte, e ap­pare chiaro che la Russia non sarà rapidamente sconfitta, subentra l’i­dea dello sterminio totale. Credo che si concretizzi nell’autunno del 1941, dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti. Tale idea diventa un or­dine, peraltro mai dato per scritto eppure ben compreso. Himmler lo annota sul suo taccuino, in data 18 dicembre, dopo aver incontrato Hitler. Scri­ve: Il Führer. Questio­ne ebrea: da eliminare come partigiani'. Nel gennaio seguente c’è la conferenza di Wannsee, dove si pro­getta che vengano coinvolti fino a undici milioni di persone». Il lavoro storico sulla Shoah si giustifica an­che con l’idea di im­pedire che possa ripe­tersi. Eppure non ha impedito altri genocidi… «Sì, in questo lo storico è impoten­te. Dopo la fine della Seconda guer­ra mondiale la gente era consape­vole di cosa era successo in Europa. Ma ci sono stati la Cambogia, il Ruanda e la Russia stalinista dove sono stati fatti sparire, in forma di­versa, milioni di persone e per i quali si può ugualmente parlare di genocidio » . Non è deludente per lei come stori­co? «È deludente per noi come esseri u­mani». (Per gentile concessione del quotidiano «La Croix » traduzione di Anna Maria Brogi) Il museo della Shoah Yad Vashem a Gerusalemme. Sotto, Saul Friedländer
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: