martedì 20 dicembre 2022
Rosa Ventrella narra la storia reale dei “bambini di Selvino” attraverso le peripezie di due ragazzini ebrei di Praga che attraversano l’Europa e arrivano in Israele
Bambini nel ghetto di Varsavia nel 1941

Bambini nel ghetto di Varsavia nel 1941 - Bundesarchiv

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C’è una storia, tra le infinite vicende di vite risucchiate nel gorgo infernale della Shoah, che ha per protagonisti dei bambini. Senza risate, senza giocattoli, ma pur sempre bambini. Piccoli che, nel mezzo di un’Europa sfigurata dal nazismo e dalla guerra, riuscirono per miracolo a scampare allo sterminio delle loro famiglie ebree, e si trovarono a sopravvivere per anni fuggendo tra le foreste di Boemia e Polonia. Marzo 1939, Cecoslovacchia. Margit è una dodicenne come tante che ama trascorrere i pomeriggi disegnando seduta sui bordi del fiume Svitava: nei suoi schizzi a carboncino ritrae la mamma Rivka, il papà Joseph, noto orafo della città di Blansko, e l’amato fratellino János, di quattro anni più giovane di lei. Una vita serena e spensierata, fino al giorno in cui in casa entra, come un virus pestilenziale, la notizia destinata a sconvolgere ogni certezza: i nazisti hanno occupato il Paese. Margit assiste a una lenta ma inesorabile parabola che trascina nel terrore la sua famimadio glia e l’intera città: « Anche se ero solo una ragazzina, avvertivo che qualcosa stava cambiando nelle teste dei cechi, per le strade additavano noi ebrei come stranieri, di nuovo come ai tempi dello Židovské mesto, il ghetto ebraico di Praga smantellato ormai da tanto tempo. Era un’altra delle storie che il papà ci aveva raccontato, perché non dimenticassimo quel che era accaduto al nostro popolo». Un passato che tragicamente fa ritorno. Le scuole sospendono i ragazzi ebrei, cominciano i pogrom finché un giorno - è l’autunno del 1941 -, nascosti in un ar- i due fratelli assistono sgomenti all’arresto dei loro genitori. Per qualche tempo sono i vicini ad accoglierli clandestinamente in soffitta, finché questo gesto di coraggio diventa troppo pericoloso: nel pieno dell’inverno, Margit e János sono costretti a fuggire da soli verso l’ignoto. Inizia così un viaggio impossibile, tra boschi e campi, di villaggio in villaggio, in un mondo che appare senza più umanità né pietà, dove l’unica parola d’ordine, per tutti, è ormai “sopravvivenza”. Anche per i più piccoli. È la giovane vedova e madre Veruska, il cui marito è stato inviato al campo di Terezín per motivi politici, a salvare dall’assideramento i due fuggiaschi e a indicare loro una possibile via di salvezza attraverso il bosco di Bor, in cui nemmeno i nazisti osano avventurarsi per timore di presenze soprannaturali. Tra le sue paludi, invece di spettri, Margit e suo fratello si imbattono in un piccolo gruppo di giovanissimi fuggiaschi come loro, capitanati dal carismatico quindicenne Franz. Che riporta alla realtà la ragazza: « Nessun fantasma infesterebbe un mondo come questo. I mostri sono nell’aldiqua», constata, incoraggiandola ad aprire gli occhi di fronte alla sorte dei suoi genitori: «Puoi sopravvivere a tutto questo solo se impari ad affrontare la verità». Durante la lunga, estrema marcia che Margit narra in prima persona nel nuovo libro di Rosa Ventrella I bambini di Haretz (Mondadori, pagine 250, euro 18,00), questo manipolo di ragazzini senza più affetti dovrà imparare ad affrontare le minacce della fame, della sete, del gelo. Ma sperimenterà anche la resilienza umana e la possibilità di creare, nonostante tutto, legami puri nel mezzo dell’orrore imperante. Struggente è il racconto del rapporto fraterno fra i due protagonisti, con l’amore assoluto e la volontà di protezione da parte della sorella maggiore che si trasforma in spinta a resistere a ogni prova, ma anche lo svelamento, nel piccolo János, di un animo intrepido che gli vale il soprannome di “Odvaha”, “coraggio”. La svolta, infine, arriva nella primavera del 1944: l’incontro, nei boschi polacchi, con una comune di altri piccoli sopravvissuti e la scoperta dell’esistenza di treni clandestini su cui i bambini ebrei possono forse trovare salvezza. Proprio su uno di questi convogli Margit raggiungerà l’Italia, dove sarà accolta in una grande casa sulle Alpi bergamasche insieme a centinaia di ragazzi scampati alla guerra e ai campi di sterminio: è l’ex colonia fascista di Selvino, dove alcuni militanti della Brigata ebraica aiutano i ragazzi a tornare alla vita e li preparano a raggiungere Haretz Israel, la Terra Promessa in Palestina. Sebbene la voce di Margit sia immaginaria, quella dei “bambini di Selvino” è una pagina di storia reale, che l’autrice ha il merito di rievocare con una prosa delicata eppure potente, capace di toccare l’anima.

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