venerdì 21 gennaio 2022
Tra gli orrori del lager di cui era comandante, Franz Stangl volle far luce sul furto di un oggetto a un internato. Atteggiamento di chi preserva la morale ma chiude gli occhi di fronte al dolore
Il campo di sterminio di Treblinka oggi. Nella foto, al centro il comandante del campo Franz Stangl

Il campo di sterminio di Treblinka oggi. Nella foto, al centro il comandante del campo Franz Stangl - WikiCommons

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Nei meandri senza fine della documentazione che riguarda la storia dello sterminio vi è un testo cui in principio non avevo dato molto credito, lungo e poco invitante, privo di concessioni alle nuances narrative adatte a conquistare le masse dei lettori o a quel realismo lirico alla cui tentazione non sfuggono nemmeno tanti racconti dalla Shoah. In quelle tenebre di Gitta Sereny è la registrazione di varie voci intorno al nucleo centrale di una intervista a Franz Stangl, il comandante di Treblinka, un signore distinto e tutto d’un pezzo, l’unico tra i comandanti di un campo di sterminio principale a essere recluso in una prigione per scontare un ergastolo sempre insufficiente quanto tardivo.

L’intervista non ha fronzoli. Pure, attraverso vari contributi collaterali che ricostruiscono un frammento di quella realtà così quotidiana e inconcepibile, è riuscita a farmi intravedere altri misteri di quel cataclisma umano senza precedenti. Strani misteri dell’evidenza. A farceli apparire enigmatici, accarezzando la nostra propensione all’indifferenza compunta e ipocrita travestita di impegno, è stata involontariamente la immane e necessaria opera di ricostruzione che ha finito per relegare ciò che era normale e quotidiano in un universo alieno.

Ogni singolo giorno dello sterminio era un giorno normale, la gente andava al mercato, si sposava e faceva affari e figli, andava a messa, vendeva ai forni altri esseri umani per pochi soldi senza alcun rimorso nella segreta speranza di appropriarsi dei loro piccoli o grandi patrimoni. Tutta gente perbene. Il giorno dello sterminio coincide con il quotidiano, non è un giorno diverso, non necessita di alcun coro greco.

Le parole di Stangl sono un tassello raro e fondamentale. Il tassello dell’uomo decente che per fare carriera assume gradualmente e volontariamente quantità di veleno sempre maggiori fino a diventare ciò che è stato. Ormai comandante, era estremamente curato nel vestire in abiti che a malapena potevano comprimere il miscuglio tossico di frustrazione e ambizione di cui era costituito il suo essere, falso anche con se stesso per puro calcolo nella sua singolare economia dei sensi di colpa.

Meticolosità e disciplina due dei suoi alibi. Franz Stangl era inspiegabilmente guardato con rispetto anche dai suoi guardiani nel carcere di Düsseldorf dove ha concluso la sua vita, come racconta con relativa sorpresa Sereny. Era condannato per la morte di circa 900mila persone, ma ostentava un portamento sufficiente a guadagnargli una qualche stima. Questi sono gli uomini. Sono convinto che oggi succederebbe lo stesso. Non importa ciò che fai, basta riuscire a dargli un senso affine alla falsità della morale collettiva e nasconderne oculatamente i frutti. Stangl che ha accettato l’inferno come realtà e destino, somiglia a un sacco di gente.

Tra tanti, mi ha colpito un episodio raccontato da Stangl stesso. Lo stigma di una dissociazione che non è frutto di malattia, ma di una premeditazione inscritta nella radice ipocrita di un modo di pensare l’etica universalmente accettato. All’arrivo di uno dei tanti viaggi della morte provenienti da varie parti d’Europa, scende un ebreo che giunto a Treblinka, con coraggio e incoscienza rari, si lamenta con insistenza perché le guardie ucraine al servizio dei nazisti gli avevano rubato l’orologio. Il fatto viene a conoscenza di Stangl. Bene, questo alto funzionario tutto compreso nel suo compito di tenere ordine in una terra di morte, seminata di morte, che odorava di morte, racconta a Gitta Sereny la sua reazione scandalizzata: «Non potevo permettere che questo genere di cose avvenissero a Treblinka». Spaventoso e spaventosamente rivelatore. Non poteva permettere il furto di un orologio, in un contesto dove migliaia di persone venivano sterminate e cremate ogni giorno. I valori sono valori.

Questi uomini non finiscono di sorprendermi. Stangl qui esibisce la ruota del pavone mendace di paladino dell’ordine e della giustizia in tutto il suo splendore. Non è un folle, tutt’altro. Sa benissimo che la società accetta di buon grado ogni mostruosità, ogni sopruso, se la sua facciata è accettabile. Anche una facciata molto piccola. Al buon borghese, devoto e rispettoso, è sufficiente un ghirigoro a oscurare la rovina che incombe. In modo da non doverla vedere. Il distinguo è una stampella della coscienza con cui si cerca di sanare l’abisso che intravediamo e il male che facciamo o a cui collaboriamo anche con la nostra premeditata inconfessabile omissione.

Stangl, a un livello del tutto singolare, rappresenta una buona parte di umanità, quella di tutti i giorni. Umanità la cui fortuna è stata ed è non essere messa in quelle condizioni. Quanti si sarebbero adattati volentieri ad un ruolo di prestigio, mostruoso ma da esercitare con un bel vestito? Quanti si adattano ogni giorno alla logica del distinguo, solerti paladini dell’orologio rubato e volutamente ciechi di fronte a stragi, dolori, sofferenze di ogni tipo? Eppure il proclama dell’orologio, mai ritrovato, serve loro per rifarsi sempre un abito nuovo, magari bianco, corredato di frustino con cui distribuire qua e là piccole porzioni di valori inservibili, parvenze di una umanità instancabile nel covare l’orrore.

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