giovedì 3 agosto 2017
Il pioniere dell'hip hop: «Delle nuove leve mi sfugge il senso. Ciò che conta è fare buon uso delle parole, ma serve cultura. Questa generazione vive in superficie e il suo pubblico è di ragazzini»
Il rapper Frankie Hinrg MC (Carolina Galbignani)

Il rapper Frankie Hinrg MC (Carolina Galbignani)

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Se Frankie sta per Francesco, Hi-nrg MC dovrebbe stare per Di Gesù, il suo cognome. Deduzione plausibile ma assai improbabile, visto che il pioniere dell’hip hop e del rap in Italia si dichiara pervicacemente non credente e men che meno praticante. Ma quell’«alta tensione» evocata nel nome d’arte, benché non abbia dichiarate divine proiezioni, non si limita certo alla sola sfera ritmica e musicale. Investe infatti come uno tsunami una spiccata «tensione » morale, politica e sociale che connota da sempre le sue canzoni-invettive. Basti ricordare il suo esordio sulla scena un quarto di secolo fa quando, nella stagione delle stragi mafiose culminate negli omicidi di Falcone e Borsellino, se ne uscì con il singolo Fight da faida, un brano di denuncia della mafiosità e della corruzione, mali supremi d’Italia. Da allora è sempre stato in prima fila, Ero un autarchico è il titolo di un suo album (del 2003) ma in realtà l’autarchia è la cifra permanente di una delle teste meglio pensanti e più critiche del nostro panorama musicale. Dopo Jovanotti, il più cantautorale dei rapper oppure, se si preferisce, il primo cantautore hip hop. Di sicuro tra i più impegnati, non solo a parole (quelle a raffica delle sue canzoni) ma anche nei fatti con il sostegno a cause umanitarie e progetti nei Paesi in via di sviluppo, come ora con l’iniziativa “Every child is my child” a cui andranno i proventi del concerto di Vulci ( Viterbo) del 5 agosto da lui promosso con molte altre popstar».

Frankie, la voce di un cantante ha ancora il potere di scuotere le coscienze e mobilitare a favore degli ultimi?

«Questo non lo so, ma so che io non posso stare in silenzio di fronte alle ingiustizie e alle povertà nel momento in cui ho il privilegio di tenere in mano un microfono che amplifica ciò che dico. Davanti a me c’è gente di cui io posso e devo interrogare la coscienza attraverso i miei concerti e le mie canzoni. Come potrei dunque non dare un senso compiuto e credibile ai fiumi di parole che dico?»

Voi rapper sembrate un po’ dei predicatori con le vostre martellanti e sentenziose invettive.

«Il rap per sua natura ti porta a essere un predicatore. Nei testi si sviluppa un racconto, più o meno fluido, caratterizzato sempre da scarsa inibizione e nel migliore dei casi da una poetica ribelle. Così in questo flusso continuo di frasi, modulato secondo certe metriche, alla fine ci si sente un po’ dei capipopolo. Bisogna averne consapevolezza e fare buon uso di quest’arma».

E in genere che uso se ne fa?

«Io di qualche rapper riesco a capire il senso e il valore artistico, ma di altri che vanno per la maggiore con il loro gioco all’ostentazione fatico a comprendere la stessa esistenza. E purtroppo la stragrande maggioranza dei loro utenti sono ancora dei vulnerabili ragazzini».

Si riferisce a qualche star del rap?

«No, mi riferisco soprattutto a frange di espressione che risalgono all’hip hop come la “trap”. Ma uno come Ghali, per esempio, con il suo stile di scrittura frammentario e apparentemente sconnesso, racconta almeno cose interessanti. Di altri invece mi sfuggono la dimensione artistica e il senso, se non quello commerciale, della loro presenza».

Da pioniere del rap che rapporti ha con i suoi epigoni, da Fedez e Fabri Fibra?

«Non ho mai incontrato quasi nessuno dei rapper più giovani di me, nemmeno Fabri Fibra a Fedez. Non perché io abiti nella periferica Cremona, ma perché siamo in giri diversi. Non so se mi spiego… Loro sono ormai dei super vip, Fedez soprattutto è sparato ovunque. E io non mi metto a parlare delle sue canzoni: c’è dentro talmente tanta roba che a questo punto potrebbe interessarmi di più il suo parere su un detersivo. Ho il sospetto che a questi livelli il senso anche sociale di fenomeni come hip hop e rap non c’entri più granché».

Che cosa intende dire?

«I messaggi musicali e culturali che lanciano in generale molti rapper sono diventati sterili e qualunquistici. Chi fa rap oggi ha poco da trasmettere. Se il pubblico è soddisfatto, io però non lo sono. A me piace guardarmi intorno, capire e raccontare la realtà socio-po-litica, farla entrare dentro le canzoni evitando le solite demagogie a buon mercato. Certo, è più utile seminare zizzania e qualunquistico catastrofismo che lanciare messaggi costruttivi».

Più furbizia o soltanto pochezza?

«Purtroppo tra molti giovani rapper i riferimenti artistici non vanno molto in là, guardano a esperienze musicali di ieri o dell’altro ieri. C’è poca cultura e ci si rifà all’immediato. E poi non fanno altro che parlare di soldi e di cose materiali da possedere. Il problema della società contemporanea è proprio che si parla sempre di quattrini. Anche quando colgo conversazioni per strada, in giro, sento tutti parlare di soldi. Non becco mai la parte del discorso in cui si dica cosa si vorrebbe fare con questa ricchezza che non si ha. Non percepisco una vera progettualità dietro a questa ossessione sociale».

Il consumismo in fondo è proprio questo.

«Anche nella musica. Con una utenza povera di stimoli. Hit del momento, fenomeni da consumare. Manca tra i ragazzi la curiosità di andare oltre, c’è troppa superficialità. Prevale la falsa cultura di YouTube».

La musica ai tempi del web, nell’era post disco.

«La istantanea disponibilità di qualsivoglia risorsa mediatica svuota un po’ di significato la fruizione stessa. C’è minor coinvolgimento personale e sensoriale. La musica digitale è fatta di algoritmi, una quantità finita di dati. Nel disco o nel nastro magnetico invece domina la continuità del flusso, è la sua caratteristica peculiare. Ciò significa che anche dal punto di vista fisico in questa liquidità dei new media c’è un decadimento sensoriale. E in tutto ciò si perde il valore della tradizione».

In che senso si può parlare in questo caso di tradizione?

«Nel senso etimologico di tradurre, portare con sé e trasferire. Nella musica questo plusvalore poteva essere dato, per esempio, dalla registrazione che si faceva in casa su audiocassette. Potevo ritrovarmi un brano preso dalla radio senza i primi dieci secondi. Oggi non c’è questo tipo di racconto, di storia personale. Una playlist digitale è uguale per tutti, c’è alla base un processo di semplificazione. Meno tradizione e memoria ci sono, più si finisce con l’accettare passivamente quello che l’industria globale ti propina. È parte di un progetto e di un processo di standardizzazione, globalizzazione e appiattimento. Con il favore e l’inganno della tecnologia. Anche se effimero, il ritorno persino dei dischi in vinile ristabilisce almeno una parziale riscoperta della bellezza di certe ritualità e tradizioni».

Invece che cosa c’è nel futuro di Frankie?

«Sto lavorando alla scrittura di uno spettacolo teatrale insieme a Marco Paolini. Si intitola Antropocene e debutterà a novembre al Teatro Massimo di Palermo con composizioni originali per orchestra sinfonica di Mauro Montalbetti. In scena saremo io, Marco e l’orchestra. Dopo Palermo, saremo a Roma, Torino, Napoli e altre città. Poi ho nuovi progetti ancora con Radiorai in autunno, grazie ai buoni risultati la stagione scorsa del mio programma “Back to Back” su Rai 1».

E il rap?

«Hip hop e rap sono forme di linguaggio, a me piace pormi come una sorta di mediatore culturale. E’ importante avere cose da dire, ma è fondamentale capire quando dirle e come».

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