giovedì 8 aprile 2010
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Le risposte definitive non appartengono alla storia, che è scienza in continuo divenire. Anche gli avvenimenti più indagati, come la Grande Guerra, continuano a produrre nuovi interrogativi e nuovi campi di indagine. Esempio di questo dibattito, che tocca punte di aspra polemica, è la Francia, la cui storiografia sulla prima guerra mondiale è particolarmente attiva e produce studi innovativi per interpretare gli eventi che sconvolsero l’Europa più di novant’anni fa. Al centro della disputa è, da qualche anno a questa parte, il problema del consenso. Nel 2000 gli storici dell’Historial de la Grande Guerre di Péronne – la principale istituzione memoriale e storiografica francese sulla prima guerra mondiale – proposero una tesi che fece clamore nell’ambito storiografico e nella società francese: la Grande Guerra non era stata imposta dall’alto ai cittadini francesi ma era l’esito di una volontà collettiva, che aveva prodotto un consenso socialmente diffuso e compatto nei confronti dell’evento bellico e che si era nutrita di un odio profondo, viscerale e duraturo nei confronti del nemico. Becker e Rouzeau, autori dello studio, invitavano gli storici a concentrarsi maggiormente sull’intensità di questa partecipazione, sulla violenza individuale e collettiva che aveva permeato la società francese impegnata dalla guerra. In La violenza, la crociata e il lutto i due autori accusavano la storiografia precedente di non avere avuto il coraggio di confrontarsi con questi aspetti indicibili del conflitto, di non aver voluto riconoscere la brutalità collettiva che si era appropriata dell’Europa nel tempo della Grande Guerra. A dieci anni di distanza, il libro del giovane André Loez 14-18. Le refus de la guerre. Une histoire de mutins (Gallimard) riapre clamorosamente il dibattito, partendo dall’analisi puntuale degli ammutinamenti che interessarono l’esercito francese nella primavera del 1917. Loez – che è membro di Crid, altro importante centro di ricerca internazionale sul primo conflitto mondiale – ribalta la prospettiva di analisi: la ricerca sulla Grande Guerra va condotta analizzando le strutture sociali e politiche che resero difficile, se non impossibile, manifestare il dissenso verso il conflitto e che imposero la continuazione di una guerra sentita da molti soldati come assurda e ingiusta. Se Becker e Rouzeau immaginavano la società francese come un monolite compatto intorno al consenso della guerra, Loez propone l’immagine di una società più porosa, attraversata da conflitti e lotte di potere, in cui lo Stato mise in campo tutte le sue capacità di mobilitazione per contenere e reprimere parole e gesti che dessero voce al desiderio di pace. Le refus de la guerre prende l’avvio dagli ammutinamenti di massa del maggio-giugno 1917, che coinvolsero le truppe francesi attive presso lo Chemin des Dames nella regione dell’Aisne, teatro di una battaglia tra le più sanguinose del primo conflitto mondiale. La ricerca utilizza come fonte primaria le lettere dei soldati, intercettate dalla censura e di cui rimane copia negli archivi militari: una scelta che privilegia uno sguardo dal basso, per provare a comprendere quale fu il vissuto di guerra e quali gli obiettivi che i soldati intendevano raggiungere con la loro disubbidienza. Grazie a queste lettere Loez è in grado di superare il muro di silenzio costruito negli anni intorno agli ammutinamenti: un oblio voluto in primo luogo dai protagonisti e dai contemporanei, che provavano vergogna e imbarazzo per quella che giudicavano una ferita allo spirito patriottico. Tra gli intenti dell’opera vi è anche quello di confutare gli studi apparsi alla fine degli anni Sessanta, che interpretavano gli ammutinamenti come semplici reazioni meccaniche e istintive ai fallimenti degli attacchi di inizio primavera: in realtà gli ammutinati esprimevano con i loro atti un rifiuto verso la guerra e un desiderio di pace a lungo covato nei mesi e negli anni precedenti. Ciò obbliga a riconoscere che gli ammutinamenti furono espressione di una vera crisi "globalizzata" dell’esercito francese che si espresse in forme diverse, dalle semplici grida di protesta contro la guerra alle petizioni per la pace inviate ai parlamentari sino alla sommossa violenta: una messa in discussione del conflitto e delle sue ragioni e non una semplice richiesta di adottare tattiche belliche meno sanguinarie. Pur non essendo classificabili come pacifisti o rivoluzionari, gli ammutinati osarono sfidare le leggi della giustizia militare – che per questi crimini prevedeva la decimazione e la fucilazione immediata – e andarono oltre la morale dominante, che richiedeva una fedeltà incondizionata alla patria e ai suoi obiettivi militari. Se è vero che gli ammutinamenti furono sedati nel volgere di un mese – nel luglio 1917 la protesta era ormai terminata – la loro azione non può dirsi totalmente inutile: per placare gli animi si allentò la ferrea disciplina imposta alle truppe, si bloccarono le offensive più sanguinarie (che per tutto il 1917 furono portate avanti dagli inglesi) e i politici francesi dovettero iniziare a ragionare con più attenzione sulla possibilità della pace. Ma il dato più significativo per la storiografia è la riscoperta che anche nel periodo del primo conflitto mondiale, caratterizzato dalla crescita dell’ingerenza dello Stato e delle sue misure coercitive e propagandistiche, le coscienze individuali trovarono modo per esprimere il proprio dissenso verso la brutalità della guerra.
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