James Joyce - archivio
È possibile avvicinarsi ai due monstra narrativi joyciani, Ulysses e Finnegans Wake, scegliendo una scorciatoia narrativa, un guado più accessibile? Ed esiste una funzione-Joyce nel romanzo europeo e italiano? Sono queste alcune domande che portano con sé tre volumi recenti, dedicati al grande scrittore irlandese James Joyce. Il primo è James Joyce. Finn’s Hotel, edito da Gallucci (pagine 128, euro 10,00). Si tratta invero di una riproposizione in brossura del volume che uscì, sempre per Gallucci, nel 2013, con introduzione di Danis Rose, autorevole studioso joyciano, nota del traduttore Ottavio Fatica, postfazione di Seamus Deane, e disegni del fumettista e illustratore statunitense Casey Sorrow. L’opera alla sua uscita destò molta attenzione e anche alcune polemiche sulla reale consistenza dell’inedito postumo.
È importante quindi riprenderla in considerazione. Ma che cos’è Finn’s hotel? È lo stesso Danis Rose a spiegarcelo: « Il Finn’s Hotel fa da trait d’union fra Ulisse e Finnegans Wake. È un’opera in sé compiuta e allo stesso tempo una meravigliosa introduzione serio-comica e di facile lettura ai temi e ai personaggi chiave di Finnegans Wake, libro di conclamata difficoltà». Si tratta di una raccolta di dieci brevi brani narrativi, dieci “favole” «incentrate su momenti formativi della storia o del mito irlandesi che abbracciano il millennio e mezzo dall’arrivo in Irlanda di san Patrizio. Joyce le compose nel 1923, all’incirca sei mesi dopo essersi definitivamente liberato dell’Ulisse e prima di concepire la trama, la struttura o la pura e semplice immensità dell’epico Finnegans Wake. Gli episodi di Finn’s Hotel sono scritti in una singolare varietà di stili e in genere in un inglese semplice». Ecco perché costituiscono una ideale “cerniera”, appunto un guado meno arduo, che può accompagnare il lettore a muoversi tra la Scilla- Ulisse e il Cariddi- Finnegans Wake.
Il titolo, in modalità tutta joyciana, allude sia all’omonimo hotel dublinese nel quale lo scrittore incontrò per la prima volta Nora Barnacle, la futura compagna di una vita, che a Finn McCool, il leggendario cacciatore-guerriero della mitologia irlandese, così importante nel Finnegans Wake, di cui Finn’s Hotel è in parte un’anticipazione. Ma come spiega Seamus Deane: « Finn’s Hotel è la grande opera in nuce e allo stesso tempo un’opera seminale a sé stante». La funzione Joyce nel romanzo italiano (pagine 316, euro 19,00) e La funzione Joyce nel romanzo occidentale (pagine 290, euro 19,90) sono due volumi, editi dalla nuova Ledizioni di Milano, a cura di Massimiliano Tortora e di Annalisa Volpone, e dedicati ad esplorare la presenza ora carsica ora più evidente dell’opera joyciana in Italia e in Europa. I due libri nascono dalle attività del Centre for european modernism studies (Cems), che ha come «obiettivo quello di indagare il modernismo, rintracciando quello che possiamo definire un minimo comun denominatore, che lega le diverse tradizioni nazionali».
Naturalmente il nome di Joyce, principe della sperimentazione e della manipolazione linguistica modernista, non può che essere al centro. Sono volumi collettanei, frutto delle ricerche di studiosi ora giovani ora già affermati, che iniziano a esplorare la vastissima storia degli effetti joyciani, senza naturalmente pretesa di esaustività, ma aprendo interessanti piste di approfondimento. Ecco allora la ricezione a caldo degli anni Trenta-Quaranta nel dibattito italiano, con la polemica futurista contro il “romanzo analitico” e iperpsicologico, e con Joyce presentato come «uno dei tanti imitatori stranieri di Marinetti». E non può mancare il confronto con Gadda, il grande espressionista della tradizione italiana novecentesca, già da Contini messo in rapporto con l’irlandese, pur nella differenza: l’italiano continuamente fa ricorso alle riserve dialettali, mentre l’irlandese lavora su una mirabile tavolozza plurilingusitica, «al servizio di una inaudita introversione, mentre quello di Gadda è un mondo robustamente esterno, nel quale l’autore crede».
Poi ci sono, tra gli altri, Luciano Berio, Umberto Eco con la sua opera aperta, che trova in Joyce il punto di riferimento principale, le sperimentazioni narrative del Gruppo 63 e di Edoardo Sanguineti, il “deromanzo” di Emilio Villa, lo sperimentalismo linguistico di Stefano D’Arrigo, fino a La ferita di aprile di Vincenzo Consolo, che si rifà però maggiormente al Portrait piuttosto che ai due romanzi enciclopedici, e al forse troppo dimenticato Corporale di Paolo Volponi. Si alternano poi saggi più teorici, su alcune costanti dell’opera joyciana, tra ordine e caos, trascendenza/ immanenza, in una costante e bruniana coincidentia oppositorum, per riflettere sulla presenza notevole di Joyce nella letteratura spagnola a partire dagli anni ’20, sul confronto con la Woolf, con Valdimir Nabokov, Michel Butor, Silvia Plath, fino ad arrivare alla letteratura irlandese post-millenial.
Alla fine la funzione Joyce emerge come viva, feconda, ma non racchiudibile in un comune denominatore: essa è importante anche quando “rifiutata”, perché nessuno scrittore degno di questo nome può fare a meno di confrontarvisi, in un senso o nell’altro; la funzione Joyce favorisce certo le sperimentazioni linguistiche di tanti autori successivi, ma soprattutto «moltiplica le dimensioni del romanzo classico», non solo le dissolve, e riemerge vitalmente soprattutto nei momenti di crisi, di passaggio, di frattura con il suo ribollente e fluviale chaosmos.