domenica 6 marzo 2011
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Conservo ancora, in mezzo alle pagine del catalogo della mostra Lucio Fontana e il sacro che Giorgio Mascherpa organizzò al Centro San Fedele di Milano nel 1986, il ritaglio della recensione che Guido Ballo scrisse il 15 marzo sul «Corriere della Sera». Sono passati 25 anni, eppure quel breve articolo resta per me emblematico del modo «imbarazzato» in cui la cultura laica dell’epoca doveva prendere atto che uno dei più grandi maestri italiani del Novecento aveva in più occasioni affrontato il tema sacro con una intensità di sguardo e di pensiero che non lascia dubbi sulla sua «religiosità». E infatti il titolo dell’articolo di Ballo era: «Religione laica di Fontana».L’incipit imbarazzato dall’esser costretto a dare conto di questa realtà, non si nota tanto negli avvitamenti e nella pedanteria in cui si esibiva Guido Ballo mettendo le mani avanti – «Occorre chiarire un equivoco diffuso: la religiosità in arte non nasce dal motivo...»; «È una spinta più profonda [rispetto al motivo sacro], totale, che si può manifestare in opere apparentemente non religiose...»; d’altra parte, in quella mostra erano presentati anche i bozzetti di Fontana per la porta del Duomo di Milano (arrivò pari merito con Minguzzi al concorso, poi quest’ultimo trovò i finanziatori per la realizzazione ed ebbe la meglio), così Ballo precisava che nel «far sentire una spazialità "oltre il visibile", Lucio Fontana, laico, era spinto da profonda religiosità: per questo continuo rapporto con l’infinito e il divenire della vita...». Come accade quando si vuol nascondere il retropensiero che invece sgomita per venire alla luce, ovvero la cattiva coscienza del laico in questo caso, ecco che nel riassumere i dati della mostra «Fontana e il sacro» divenne, per Ballo, «Fontana religioso».Honi soit qui mal y pense, eppure la tentazione di credere che avendo chiaro già tutto dell’arte di Fontana, Ballo scrisse quel pezzo «al buio», ovvero senza nemmeno vedere la mostra, è forte. Come se volesse dire: lungi da me il sospetto che anche solo per un istante io possa aver preso seriamente l’idea che Fontana accingendosi al tema sacro avesse qualche trasporto più carnale del «pensiero d’infinito». Ma non può ignorare il dato di fatto: in quella mostra si presentavano anche «i bozzetti per la porta del Duomo»: così l’occhiello dell’articolo dichiara proprio questo. E poi? Poi colpisce che una delle cose più straordinarie di quella mostra, la Via Crucis del 1956-57, 14 formelle di terracotta ovali oggi conservate alla Chiesa del San Fedele, non sia nemmeno ricordata nel pezzo: Deposizioni, Cristo, Concetti spaziali, Ambienti; vale a dire, ciò che era più noto di Fontana, ma non quella Via Crucis, perché pone un tema troppo esplicito, che chiama in causa una religiosità di Fontana meno «laica», se è vero che oggi si discute se lasciare o togliere il crocifisso nelle scuole facendone una questione di credo religioso. Passano due anni e alla Galleria Niccoli di Parma Enrico Crispolti presenta un’altra Via Crucis di Fontana, 14 sculture in ceramica riflessata, eseguite accanto ai maestri d’Albissola, dai colori corruschi e preziosissimi, quasi dei gioielli sacri, come se un plasticatore «barocco» ne avesse forgiato le forme cercando di fermare nella materia quel conflitto di forze, di luci, di suoni, quel nuovo Big Bang che avvenne sul Golgota duemila anni fa. Era un’opera del 1947, che apparteneva a un collezionista privato, eseguita dopo il rientro in Italia dall’Argentina (Fontana era nato a Rosario di Santa Fé, suo padre era uno scultore di origini varesine che aveva sposato un’attrice argentina, Lucia Bottini, di origini italiane). Anche questa Via Crucis, era inedita. Il 2 ottobre sul «Corriere della sera» ne scrive Giovanni Testori. I tempi stanno cambiando: così nessun imbarazzo nel notare che Fontana eseguì questa Via Crucis «senza commissione alcuna; dunque spinto da una sua privatissima tensione e necessità». E Testori si abbandona a una empatia creativa che testimonia la bellezza di quest’opera: «Groviglio di materie, superbamente glassate, come sapevano fare solo gli anonimi terracottisti Sukhotai del XIV secolo; superbamente e, aggiungiamo, angosciantemente glassate, quasi l’invetriatura fosse un caramello sanguinante, sacrificale e, insieme, stellare; questo groviglio, dicevo, dove le figure s’inseguono, s’attirano, si torcono, s’allungano, si sbrindellano, s’abbracciano, si feriscono, si baciano e dove, atto dopo atto, vien umiliato e, insieme, esaltato l’evento finale della vita di Cristo» - tutto questo, afferma Testori – «pone, senza più mezzi termini, la designazione di tutta l’opera di Fontana». Chi vuole leggersi questo magnifico gioco pirotecnico di Testori, questo inno gioioso e tragico alla scultura di Fontana, lo troverà in un libro curato da Fulvio Panzeri e da pochi giorni in libreria per le edizioni Interlinea: Davanti alla croce, però qui è bene ricordare le conclusioni cui giunge lo scrittore milanese, che ribaltano la prudenza imbarazzata e infastidita con cui Ballo aveva accolto due anni prima sullo stesso quotidiano la «scoperta» della prima Via Crucis (che in realtà è l’ultima in ordine temporale di tre che Fontana realizzò): «Ben più che in altre opere sacre di Fontana – scriveva Testori –, l’eterna verità dell’actus tragicus del Golgota sembra qui appartenere, tutta, al nostro tempo, proprio perché mira sempre ad uscirne; forse per catturare quello spazio incommensurabile e indicibile, in cui, avendo compiuta la volontà del Padre, il Cristo è tornato».Terzo atto. L’anno scorso la Regione Lombardia ha acquistato un’altra Via Crucis di Fontana, la seconda in ordine cronologico, eseguita tra il 1955 e il ’56, 14 formelle ottagonali di forma allungata, inserite nella Cappella della Casa materna asili nido Ada Bolchini dell’Acqua a Milano, progettata dall’architetto Marco Zanuso tra il 1953 e il ’54. Questo «investimento» – cosa già di per sé encomiabile –  offre lo spunto ora a una mostra concertata col Museo Diocesano di Milano e allestita nel nuovo spazio del Palazzo Lombardia, che si apre il 17 marzo e dove verranno esposte per la prima volta tutte e tre le Vie Crucis di Fontana insieme, nel cui catalogo (edito da Electa) figurano i saggi di Enrico Crispolti, Paolo Biscottini e Andrea Dall’Asta, che affrontano ciascuno uno dei tre cicli di Fontana. La terza suite di terracotte è conosciuta come Via Crucis «bianca» per via dei tocchi di colore dominante che la caratterizza (da maggio verrà esposta stabilmente al Museo Diocesano di Milano). Ciascuna di queste tre straordinarie opere vive di una propria autonomia. Come scrisse già nel 1988 Crispolti (trovando d’accordo Testori), Fontana era «nato scultore» e la Via Crucis del 1947 è quella dove la sua vena plastica prevale, almeno in apparenza, sull’adesione stretta a un dettato illustrativo che segua la partitura liturgica del cammino verso il Calvario. In realtà, la prosa di Testori recuperava bene il sostrato di «cristicità» che si cela dentro quel magma di forme che aggettano dal nucleo generatore come lingue di fuoco, lava che esplode nello spazio e mette in scena il tremendo conflitto «ricreativo» che si manifestò sulla croce, dove il dolore di Cristo, il Christus patiens, è l’agnello afono di Isaia che copre col suo silenzio l’apocalisse che si compie nel suo martirio e nella sua morte, e continua nella stasis del sepolcro dove tutto è fermo, ma tutto, in realtà, è in piena traformazione. Su questo silenzio mistico Fontana sembra sollevare il velo mostrandoci, sia pure nell’infinitamente piccolo delle sue sculture, la tremenda simmetria che separa visibile e invisibile.
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