venerdì 23 febbraio 2018
Alla Fondazione Prada Germano Germano Celant organizza una mostra spettacolare sull’arte nel Ventennio. Ma le opere sono ridotte a documenti e all'interpretazione si preferisce la suggestione
Immagini della mostra “Post Zang Tumb Tuuum” alla Fondazione Prada a Milano (Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti)

Immagini della mostra “Post Zang Tumb Tuuum” alla Fondazione Prada a Milano (Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti)

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Si dice che negli anni Trenta quel poco di storia europea che era conosciuta dagli americani, venisse loro dalla visione dei film in costume, per cui la Rivoluzione Francese, per esempio, era conosciuta come sfondo alle imprese della Primula Rossa, interpretata da Leslie Howard. Una sorta di “ infotainment” (neologismo anglosassone composto da “information”, informazione, e “entertainment”, intrattenimento) ante litteram, che farà storcere il naso ai colti, ma che di fatto è stato un veicolo d’informazione e di formazione fondamentale per le masse.

Ma perché esordire con questo aneddoto? Perché questa “Post Zang Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943” alla Fondazione Prada di Milano suggerisce la stessa sensazione. La sensazione di un oggetto/mostra che fa da scenario a un momento storico, da sfondo a un’azione, che però non si sa bene quale sia perché gli attori non sono ancora entrati in campo.

Germano Celant, il curatore, è chiaro e deciso nel dichiarare il suo intento critico: «Mettere in discussione l’idealismo espositivo in cui i lavori, nei musei e nelle istituzioni, sono messi in scena in una situazione anonima e monocroma, generalmente bianca, per riproporli invece in uno spazio storico di comunicazione», e per far questo ha lavorato con lo studio newyorkese 2X4 per ricostruire parzialmente il contesto espositivo delle molte opere selezionate, attraverso le fotografie degli allestimenti d’epoca ingrandite sino alla scala naturale e “completate” dalla presenza reale di alcuni singoli lavori.

Accanto a questo espediente di ricostruzione storica, una valanga di documenti disparati, una serie di giganteschi stendardi con la riproduzione di allestimenti propagandistici del Ventennio, e poi oggetti, fotografie, arredi, capolavori d’arte applicata come il monumentale vaso Casa degli Efebi di Gio Ponti, e tanto altro, per una mostra mastodontica che ha l’ambizione di essere esaustiva.

Eppure, il problema è proprio questo, perché di fronte a un intento battagliero, alla presenza di autentici capolavori, e a una regia espositiva attenta e ricca, non è così semplice comprendere la tesi della mostra, cosa, cioè, tanti documenti intendano dimostrare. Forse il consenso al fascismo? Lo sfruttamento delle arti a livello di propaganda? La macchina della spettacolarizzazione della politica? La blandizie alla massa? Il fatto che tutti gli artisti – chi più chi meno – fossero fascisti o ignavi? L’abbraccio mortale del regime nei confronti dell’arte e ancor più dell’architettura?

La difficoltà nasce paradossalmente dal fatto che ogni cosa è trattata come “documento”, come frammento di un sistema di relazioni sociali, di convenzioni e coercizioni politiche, ma che si devono conoscere a priori, perché difficilmente escono dalla mostra e anche dal suo allestimento: non è infatti sufficiente mostrare come erano attaccati i quadri al muro, e affiancati l’uno all’altro, per comprendere l’essenza del fascismo e del suo consenso in certi anni della storia d’Italia, perché in tutte le esposizioni internazionali, delle democrazie come dei totalitarismi, i quadri erano esposti in quel modo, e allora quel modo non dimostra cos’era il fascismo, ma al massimo cos’era il gusto espositivo nell’Europa degli anni Venti e Trenta…


Viene meno allora proprio l’intento disvelatore, che in questa mostra appare persino un poco moralisteggiante (cosa in netto contrasto col concetto di “documento”), perché l’aver fornito una tale mole di manufatti, artefatti e documenti non li fa “parlare da soli”, in virtù della loro sola presenza, e l’impressione – se questo era l’assunto – è che il curatore abbia dato per scontato nel pubblico ciò che lui stesso sente e sa dei rapporti intercorsi tra arte e politica in quel famigerato ventennio, e non bastano le tavole sinottiche a costruire la trama “intima” delle relazioni tra fare arte e vivere in dittatura, tra intellettuali, artisti e potere.

Inoltre, l’aver abbassato l’opera d’arte a livello di mero documento è una decisione coraggiosa – e, va detto, riuscita –, da materialismo storico, ma probabilmente non ha giovato all’interpretazione del periodo: se l’assunto critico fosse stato quello di considerare come e quale arte si potesse fare nonostante la concussione della libertà, e a quali compromessi si dovesse scendere volenti o nolenti, forse il restituire – o il lasciare – l’aura sia storica che mitopoietica alle opere di fronte alla miseria della cronaca quotidiana sotto il regime sarebbe stato più utile. Ma evidentemente la volontà di condanna senza appello, travestita da operazione filologica, era già scritta.

Certo, il sistema dell’arte anche quando non è condizionato dalla politica ha le sue profonde miserie, e figurarsi sotto un regime! E che gli artisti non fossero anime belle in una torre d’avorio lo testimonia, ad esempio, la lettera della Quadriennale romana del 1935 che comunica a Gino Severini la vittoria nella manifestazione, e il conferimento del premio di ben centomila lire (quando si cantava “se potessi avere mille lire al mese…”) che il parigino d’adozione si è ben guardato dal rifiutare. Ma davvero oggi è così diverso?


Milano, Fondazione Prada

POST ZANG ZANG TUMB TUUUM

Art Life Politics: Italia 1918 -1943

Fino al 25 giugno

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