martedì 22 giugno 2010
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«Oggi, qui a Beirut, abbiamo sentito cristiani e musulmani parlare di educazione come di un fattore decisivo, a medio e lungo termine, per combattere il fondamentalismo. Ed è proprio l’educazione che insegna il rapporto imprescindibile tra verità e libertà, negato invece dal fondamentalismo». Così il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, sintetizza i risultati del convegno annuale della Fondazione internazionale Oasis (da lui promossa per l’incontro tra cristiani e musulmani) che si conclude stasera a Fatqa, a nord di Beirut, sul tema «Educazione tra fede e cultura: esperienze cristiane e musulmane in dialogo». Il convegno si è aperto ieri mattina alla presenza del patriarca maronita, cardinale Nasrallah Sfeir, e del ministro libanese dell’Informazione Tareq Mitri, impegnato da anni sul fronte dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso. «L’educazione come paideia. Una proposta per il nostro tempo» è stato il titolo dell’intervento del cardinale Scola. Parlare di educazione in Libano è per il patriarca «un’opportunità straordinaria, perché questo è un Paese che ha scelto di legare le proprie sorti al successo o al fallimento dell’impresa educativa. Qui l’educazione si rivela come il caso serio per eccellenza: dove riesce, assicura un "essere-insieme" che si è guadagnato l’ammirazione di tutto il mondo; ma quando fallisce, lascia il campo alle peggiori violenze. Ma il nostro obiettivo non è indulgere sugli aspetti critici né tanto meno stilare dubbie classifiche sulla rispettiva gravità delle emergenze educative d’Oriente e d’Occidente, quanto piuttosto quello di offrire qualche linea di proposta». Ad esempio? «Un’adeguata antropologia, fondata sull’io-in-relazione con Dio, con gli altri e con se stessi, permetterà di evitare una deriva violenta, senza cedere a un insoddisfacente agnosticismo. È a questo livello, a mio avviso, molto prima che nella questione dell’esegesi dei testi sacri, che si giocherà la partita decisiva per le religioni». Nelle scuole si combatte il fondamentalismo e nasce il meticciato tra popoli e culture. Un altro cardinale, Jean-Louis Tauran, lo ha sottolineato nel suo intervento su «Cristiani e musulmani di fronte alla sfida educativa»: «Nelle società occidentali i giovani vivono spesso il loro cristianesimo come un deismo, ma di recente le cosiddette nuove comunità hanno dato vita a spiritualità che suscitano una pratica cristiana più motivata e più missionaria. In ambito musulmano, siamo sorpresi dalla visibilità della pratica religiosa, dal modo in cui la religione impregna tutte le dimensioni della vita, individuale e comunitaria, del musulmano. Bisogna tuttavia notare che il clima di indifferenza religiosa, in Europa in particolare, può avere due conseguenze sui giovani musulmani: in un caso, il secolarismo diffuso afferma un’identità aggressiva, in altri casi porta all’assenza di ogni pratica religiosa». Non dovrebbe tuttavia essere impossibile, secondo Tauran, per i religiosi cristiani e musulmani sensibilizzare i legislatori e gli insegnanti sull’opportunità di proporre regole di comportamento, quali «il rispetto della persona che cerca la verità di fronte all’enigma della persona umana; il senso critico che permette di distinguere tra vero e falso; l’insegnamento di una filosofia umanista in grado di offrire risposte sulle questioni riguardanti l’uomo, il mondo e Dio; l’apprezzamento e la diffusione delle grandi tradizioni culturali aperte al trascendente, che esprimono la nostra aspirazione alla libertà e alla verità». Il professor Ridwan al-Sayyed, musulmano sunnita, ha invece illustrato la formazione degli ulema tra continuità e riforma, non nascondendo un certo sguardo pessimista sulla situazione; l’insegnamento islamico – ha spiegato – avviene ormai fuori dai luoghi istituzionali come le moschee, in spazi nuovi come quelli gestiti da telepredicatori. Prevale così tendenzialmente un islam chiuso, non necessariamente violento, ma ripiegato su di sé. Per lui, i due modelli che lasciavano sperare – quello libanese e quello europeo – sono oggi in difficoltà: l’esperienza libanese era forte di una pratica di convivenza, ma non ha saputo elaborarne le ragioni di fondo. I capi che si formano all’estero sono forti in teoria, ma incapaci di spiegare e dare futuro al pluralismo che vivono. La questione europea per Sayyed è chiusa e la nuova generazione viene tentata dal fondamentalismo. Anche la Turchia, guardata con speranza in quanto vi coesistono un partito islamico al potere e la laicità dello Stato, non sta tuttavia elaborando tale modello, non è in grado di aprire prospettive nuove. Singolare tra gli interventi degli ospiti musulmani quello dello sceicco Hani Fahs, membro dell’Alto Comitato sciita libanese, il quale ha sottolineato come una vera esperienza di fede «è uccisa dallo Stato religioso e dalla politica religiosa, mentre trova nuova vita e protezione nello Stato laico e nella politica nazionale. La religione non ha perso nulla nell’Occidente quando si è prodotta quella separazione pronunciata che noi non vogliamo o vogliamo bilanciata dalla considerazione delle nostre particolarità e della nostra cultura. Perciò – ha concluso – affrettiamoci a creare istituzioni educative che allenino alla vita comune che apre gli occhi e i cuori a idee e valori, alla memoria condivisa e al sogno condiviso, facilitando nelle nostre generazioni il rispetto delle particolarità dell’altro». Beh, in Libano si fa già: l’università cattolica La Sagesse conta fra i suoi laureati l’80% di musulmani...
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