domenica 12 maggio 2019
L’azzurro n.10 del mondo dopo aver vinto Montecarlo cerca il bis agli Internazionali. Cecchinato e il giovane Berrettini pronti a stupire
Il tennista Fabio Fognini n.10 del mondo

Il tennista Fabio Fognini n.10 del mondo

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Certe imprese prendono forma senza un perché, ammesso che continuiate a cercarne uno fra gli equilibrismi statistici dei confronti con il passato e non vi affidiate invece a quel sentire che gli amici francesi chiamano “esprit du temps”, lo spirito del tempo, che a volte sa come aprire un varco fra le nebbie che ci avvolgono e libera la vista su ciò che potrebbe avvenire. Prendete gli Internazionali di tennis, che tornano per la settantaseiesima edizione, la cinquantunesima in Era Open, la settantesima a Roma. Anni fa, era il 2007, Filippo Volandri stese Federer, non lo prese a pallate ma quasi. E Roger era il numero uno. Fu l’ultima semifinale di un italiano. Lo era anche Andy Murray dieci anni dopo, seppure a molti fra i presenti venne da pensare che se lo fosse dimenticato. Quella volta toccò a Fabio Fognini ribaltare la storia del tennis. Lo fece senza esitare, fra pallate che viaggiavano felicemente verso la mèta, parte di un match da confezione regalo che il nostro recapitò allo scozzese. Murray finì impallinato, peggio, sedotto e bidonato. Aveva bisogno di recuperare un po’ di autostima, in quell’anno che si rivelò poi l’ultimo “pieno” della sua avventura fra i Fab Four, tanto più nel torneo che un anno prima gli aveva consegnato il trofeo. Fabio gliela azzerò, poi perse da Zverev, la valigia già pronta negli spogliatoi per volare a Barcellona a dare il benvenuto al figlio. Ma l’anno dopo, l’anno scorso, raggiunse i quarti, i suoi primi dopo tredici partecipazioni. Sconfisse Monfils, addirittura Thiem, si perse per strada contro un Nadal che non era davvero morbido e commestibile come quello odierno. Dite, vi sono statistiche in grado di spiegare l’evidente crescita delle azioni del nostro tennista? Manco mezza, a meno di non far collimare il buon tennis con la nascita di Federico. Ottavi nell’anno di nascita, quarti a compimento del primo anno. E per il secondo compleanno? È per il 19 maggio, guarda un po’. Il giorno della finale. La meraviglia è proprio questa. Oggi pensare Fognini finalista a Roma potrebbe sembrare normale. Non facile, né sicuro, ma possibile. E non solo perché ha vinto a Montecarlo. Anche per quello, ma non solo. È lo spirito del tempo a incoraggiare divinazioni favorevoli. C’è che dagli Open d’Australia non di quest’anno, ma dell’anno scorso, il tennis italiano al maschile ha preso coscienza di sé. Lo ha fatto come si fanno le cose in Italia. Un passo avanti, due indietro, poi un balzo in contropiede per arrivare là dove sembrava impossibile, così repentino da lasciare tutti attoniti, a chiedersi se fosse la realtà o invece una mascherata, l’inizio di qualcosa o un fuoco d’artificio destinato a illudere per poi spegnersi in un ultimo borbottio di vitalità. E invece siamo qui, a scrivere considerazione mai più tentate dopo gli anni Settanta. Successe a Melbourne 2018 che di fianco a Fognini e Seppi, Lorenzi e Fabbiano, la vecchia guardia, seppure con differenti stati di rodaggio a livello Slam, si disposero tre ragazzi usciti dalle qualifiche, Caruso e Sonego per legittima conquista e Berrettini come fortunato perdente. In sette al via, e già questa sembrò a tutti una svolta. Poi in tre al secondo turno, con Sonego personaggio inaspettato, a parlare dei suoi anni calcistici in maglia granata e del bel rapporto con mastro Gibo, Gianpiero Arbino, coach e mentore sin dalle prime racchettate. Agli ottavi giunsero in due, il miglior anno australiano di Fognini, e la conferma che Seppi su quel cemento si trova come sulle nevi friulane. Un lampo, forse. Lo pensarono in tanti. Ma il seguito fu migliore. Ricominciò tutto ancora da Fognini (Sao Paulo, in finale sul cileno Jarry) e al suo si unì presto un nome dimenticato nelle liste dei challenger settimanali, quelli che chiamano gavetta: Marco Cecchinato, palermitano trasferitosi al nord che più nord non si può (almeno in Italia) su volere del padre, «perché là fanno le cose per bene».

In Friuli Marco ha ammucchiato un bel po’ di sapere tennistico, ma poi per vincere è tornato verso il mare. Si è preparato ad Alicante sui campi di quelli che da decenni dettano legge sulla terra rossa, ed è andato a vincere a Budapest, quasi dal nulla, cioè muovendo dalle qualificazioni perse all’ultimo turno per poi essere ripescato come Lucky Loser, il fortunato perdente. Semifinale derby, contro Seppi, e vittoria in due set su Millman in finale. Nessuno poteva immaginarlo, ma era l’annuncio di un’impresa speciale. Cecchinato, finalmente nel novero di quelli che negli spogliatoi qualcuno riconosce, trovò sul rosso lento di Parigi i tempi giusti per esprimere il miglior tennis. Si liberò di Copil al quinto set in primo turno, ed era la prima volta che superava lo scoglio iniziale in uno Slam; poi acquisì sicurezza, scherzò con Trungelliti, e passò a mettere in riga tennisti da prime dieci posizioni: Carreno Busta, poi Goffin, addirittura Djokovic nei quarti, sconfitto in quattro set. Raggiunse la semifinale in un torneo che non vedeva gli italiani così in alto dal 1977. D’improvviso, il nostro tennis riacquistava una dimensione di primo piano. Fognini dette il suo raggiungendo gli ottavi: uno dei migliori cinque Roland Garros in azzurro da quando il tennis è Open. Era solo l’inizio. Ecco ancora Fognini alla conquista di Bastad (su Gasquet) e Cecchinato che vince a Umag (su Pella); poco dopo a Gstaad si fa conoscere Matteo Berrettini, ventidue anni, romano, il lato giovane del nostro tennis. Un metro e 93, gran servizio, dritto che spacca, idee chiare, pensieri da bravo ragazzo. Nel tour da un anno e subito competitivo. Un’altra bella storia da raccontare. Il coach è Vincenzo Santopadre, uno che lavora seriamente.

Non è finita. Crescono i piazzamenti, Fognini vince ancora, sul cemento di Los Cabos stavolta, e in finale contro Del Potro. L’anno si chiude con due italiani fra i primi venti, Fognini è numero 13, Cecchinato numero 16. In una stagione il tennis maschile italiano ha trovato il rilancio che cercava da decenni. Che cosa è successo? Si sono formate buonissime Accademie, molte di esse lavorano bene sul territorio, i coach hanno fatto le esperienze necessarie e trovano sponda nella federazione (Berrettini, quando Santopadre non può, viene seguito da Rianna). Soprattutto funziona lo sprone reciproco, come sempre. Fra i ragazzi c’è conoscenza, intesa, ma anche voglia di superarsi. Il 2019 nasce da questi presupposti. E rilancia. La vittoria juniores di Musetti (e i quarti di Zeppieri) a Melbourne, il successo di Cecchinato a Buenos Aires, poi l’impresa di Fognini a Montecarlo, primo Masters 1000 vinto da un italiano, seguita dal successo di Berrettini a Budapest e dalla finale (la settimana dopo) a Monaco. Nel challenger di Bergamo si fa conoscere Jannick Sinner, friulano anche lui, appena 17 anni. Ed è già terra rossa. I grandi ancora non sono al meglio (Nadal inciampa a Montecarlo proprio su Fognini), si creano spazi interessanti. Roma è uno di questi. Hai visto mai?

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