mercoledì 12 luglio 2023
Per il critico statunitense, acuto lettore del “Paradiso perduto” di Milton, «un testo prodotto da un programma di intelligenza artificiale è solo un incidente statistico: non ha significato di per sé
Stanley Fish

Stanley Fish - Flickr/Cardozo School of Law

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Stanley Fish è uno degli accademici più discussi e influenti degli Stati Uniti. Classe ’38, nato a Providence (come Cormac McCarthy) da una famiglia ebraica, critico letterario e professore di legge alla Yeshiva University di New York e alla Florida International University di Miami, vibrante columnist del “New York Times” (dal 1995 al 2013), nel corso di quasi un sessantennio si è occupato di Milton e dell’effetto “redentivo” che il Paradiso perduto ha sul lettore, di linguistica e di «stilistica affettiva » (il modo in cui il lettore, appunto, contribuisce a creare nuovi sovrasensi in un testo), di religione, di politica universitaria e, più recentemente, del Primo emendamento della Costituzione americana, delle post-verità e di Donald Trump. Rimproverato da Martha Nussbaum per il «soggettivismo radicale » della sua epistemologia, assertore del «valore intrinseco» delle discipline umanistiche contro il loro uso «strumentale», Fish si inserisce – come Harold Bloom – nella propaggine più acuta del postmodernismo: il libro simbolo della sua teoresi è C’è un testo in questa classe? L’interpretazione nella critica letteraria e nell’insegnamento (Einaudi 1987), in cui Fish anticipa la fine di un condiviso skyline interpretativo (con un caro saluto alla «fusione degli orizzonti» di Gadamer e alle intentiones di Eco): è il lettore – ancora lui, solo lui – a produrre il significato. In un tempo dominato dalla cancel culture e dall’intelligenza artificiale questa lezione, pur spinosa e controversa, può tornare straordinariamente attuale. O almeno far riflettere. Professore, lei è noto a livello internazionale per la sua idea di «comunità interpretativa». Può spiegarcela nel dettaglio? La comunità interpretativa è spesso fraintesa come qualcosa che nasce quando persone con mentalità e interessi simili si riuniscono per discutere o per celebrare le loro ossessioni. In realtà, è il contrario. Una comunità interpretativa emerge quando una forma di vita o un insieme di pratiche disciplinari è stato interiorizzato al punto che le coscienze e le percezioni dei membri sono un’estensione dei valori e delle preoccupazioni della comunità. In un certo senso, tali persone sono proprietà della comunità; la comunità li possiede, detta ciò che vedono e fanno; non scelgono la comunità come agenti indipendenti; il loro agire è sussunto nell’agire corporativo dell’impresa che ora parla attraverso di loro e in effetti li parla. Un membro della comunità interpretativa vede il paesaggio in cui entra come già organizzato e popolato da oggetti, obiettivi, risorse, possibilità di azione, etc., specifici della comunità. Non inizia ab novo – da zero – ma è sempre e già inserito nella rete di valori, protocolli possibili, percorsi di azioni che sono il contenuto dell’impresa.

In C’è un testo in questa classe? racconta il singolare esperimento condotto in un’aula universitaria: ai suoi studenti dà come compito l’esegesi di un elenco di sei nomi scritti in colonna sulla lavagna, dicendo che si tratta di uno dei testi poetici di loro competenza (la poesia religiosa inglese). E loro, in effetti, li “leggono” come se fossero versi. Qual era lo scopo di quell’esperimento?

L’esercizio illustra come la poesia non sia identificata da un insieme di marcatori stilistici o tematici, ma da una particolare maniera di leggere, che può essere applicata a qualsiasi testo. Quando a un membro competente della comunità di lettori di poesie viene detto che un testo è una poesia, lui o lei lo elabora immediatamente in un modo da creare le caratteristiche – ambiguità, complessità, multistrato – che si pensa costituiscano l’essenza della poesia. Come sottolineo nel saggio, « non è la presenza di qualità poetiche a richiedere un certo tipo di attenzione, ma è il prestare un certo tipo di attenzione [disponibile come azione mentale per i membri della comunità] a tradursi nell’esigenza di far emergere determinate qualità poetiche».

Uno dei suoi libri più famosi è Come scrivere una frase: e come leggerne una (Harper Collins 2011). Qual è il metodo per comporre una buona frase?

Il modo migliore per imparare a scrivere è imitare frasi complesse inserendo nuovi contenuti nei modelli mostrati. Bisogna, cioè, comprendere la struttura sintattica di una frase articolata; una volta fatto ciò, l’inserimento di un contenuto alternativo è facile e si impara qualcosa di generale sulla scrittura. È necessario poi praticare questa abilità finché non diventa una seconda natura, come quando scendiamo le scale o giochiamo a tennis. E così scrivere frasi complesse sarà un esercizio fluido piuttosto che gravoso.

Cosa ne pensa delle post-verità e della cancel culture? A quali derive ci stiamo avvicinando?

La cancel culture è, in realtà, una cosa molto antica; ogni cultura nella storia include un senso di ciò che dovrebbe e non dovrebbe essere detto e meccanismi per far rispettare quel senso. Ciò che differisce, in questo caso, sono (a) la visibilità o l’invisibilità delle norme linguistiche e (b) la forza e l’estensione del meccanismo che controlla e mantiene quelle norme. Siamo sempre stati in una condizione di post-verità in quanto i fatti e le certezze che affermiamo ci giungono attraverso la mediazione di storie, tradizioni, valori assunti e mete prefissate da tempo. Non c’è mai un confronto diretto con il mondo al di fuori di qualsiasi comunità interpretativa; solo i mondi che le comunità interpretative ci danno. La nostra situazione epistemologica è stata la stessa dall’inizio dei tempi e lo sarà sempre.

Come vede l’intelligenza artificiale, capace di scrivere addirittura un testo letterario?

L’intelligenza artificiale, nella sua forma forte, è un tentativo di sollevarci dalla condizione di post-verità e consegnarci un mondo più pulito, più obiettivo e meno dominato dalla prospettiva. Non ci riuscirà mai. Né l’intelligenza artificiale potrà mai eguagliare l’intelligenza umana: tutto ciò che può fare è recuperare schemi e collocazioni; non può dirci cosa significano, perché non ha coscienza ed è solo una macchina – superpotente – per l’addizione e la combinazione. Un testo prodotto da un programma di intelligenza artificiale è soltanto un incidente statistico; non ha significato di per sé, e il significato può essergli attribuito immaginando che i dati osservati siano stati prodotti da un essere intenzionale. Ma non è così.

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