sabato 29 giugno 2013
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Un merito, se non altro, va riconosciuto a Margherita Hack: non ha mai fatto mistero delle sue opinioni. Né tanto meno ha cercato di dissimularle per compiacere l’interlocutore. Anche e specialmente in materia di fede, argomento per il quale provava scarsissimo interesse, ma verso il quale negli ultimi aveva assunto un atteggiamento battagliero e non di rado schematico. Entrata a far parte del nutrito drappello di «presidenti onorari» dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (Uaar), aveva adattato il suo spiritaccio toscano agli standard dell’associazione, che purtroppo non si segnala per sottigliezza speculativa. Una sua uscita, in particolare, aveva colpito il vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Zenti: a sentire che l’astrofisica paragonava la fede in Dio a quella in personaggi di fantasia come Babbo Natale e la Befana (roba da bambini, insomma, da abbandonare quando scocca l’età adulta), il presule si era detto disposto a un confronto pubblico, magari in diretta televisiva. Margherita Hack aveva accettato e così il 20 gennaio 2010 era andato in onda dall’auditorium veronese della Gran Guardia un dialogo correttissimo nella forma, ma nel corso del quale la scienziata non aveva arretrato di un millimetro. Tanto che monsignor Zenti, al quale erano attribuite «suggestioni, non ragioni», aveva ricordato con fermezza che un credente non è per forza un credulone. Aggiungendo che la fede nella scienza è pur sempre una fede, impossibile da dimostrare rimanendo sul piano della mera razionalità.Io credo, del resto, è anche il titolo del libro (curato da Marinella Chirico e pubblicato nei mesi scorsi da Nuova Dimensione) in cui Margherita Hack si confrontava lungamente con don Pierluigi Di Piazza, fondatore del Centro Balducci di Zugliano, nell’Udinese. Un prete “sociale”, noto fra l’altro per la vicinanza a Beppino Englaro nei giorni della morte di Eluana e con il quale la scienziata affermava di avere un’intesa di fondo proprio in materia di «argomenti etici». Sì, ma con quale formulazione? «Il mio primo comandamento è: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. O meglio: ama il prossimo tuo come te stesso», affermava ricorrendo a una trasparente citazione evangelica. Tanto trasparente che subito dopo si sentiva in dovere di precisare: «Non c’è bisogno di religioni o sovrastrutture, dovremmo adottare questi comandamenti vivendoli, tutti i giorni, nelle nostre attività, cercando di ispirarci a loro, domandandoci se li seguiamo davvero o no». Di Dio, in ogni caso, sosteneva di non sentire il bisogno. Lo considerava «una spiegazione comoda», «che non mi convince», rispetto al mistero dell’origine dell’universo (al che don Di Piazza ribadiva che far coincidere «principio di vita» e «Dio creatore» non è necessariamente una «scappatoia»...). Pochissima simpatia per la Chiesa, ma grande intesa con alcuni sacerdoti, primo fra tutti padre Ernesto Balducci, che la chiamava «la mia cara atea». Nel 1944, a ogni buon conto, le nozze con l’amatissimo Aldo De Rosa erano state celebrate in chiesa, nonostante l’astrofisica si dichiarasse contraria al matrimonio. A suggerirle l’identificazione tra religione e irrazionalismo aveva forse contribuito il fatto che i genitori – padre protestante, madre cattolica – avessero aderito ai dettami della teosofia, descritta dalla Hack come «una filosofia di matrice buddista che crede in un Dio diffuso in tutto l’universo, nella reincarnazione e soprattutto nel rispetto di tutti gli esseri viventi, e quindi anche degli animali. I miei avevano scelto di essere vegetariani, io sono nata vegetariana». Abitudini alimentari a parte, la sua diffidenza verso l’esperienza di fede restava inattaccabile. Anche se, per un curioso contrappasso, lei stessa si era ritrovata a essere oggetto di un piccolo “culto”: «Trovo persone che mi ammirano quasi con devozione, come se fossi padre Pio», ammetteva in Io credo.​
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