venerdì 11 agosto 2023
Il direttore inaugura il Rof 2023 con “Eduardo e Cristina”, opera quasi inedita: «Qui si può costruire e avvicinarsi all’interpretazione originale»
Il direttore d'orchestra Jader Bignamini

Il direttore d'orchestra Jader Bignamini - Amati / Bacciardi

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«Incredibile dirigere nel 2023 una prima assoluta di Gioachino Rossini». Una prima assoluta. O quasi. Perché Eduardo e Cristina che stasera inaugura l’edizione numero quarantaquattro del Rossini opera festival di Pesaro si ascolterà in prima italiana in tempi moderni – dopo il debutto a Venezia nel 1819 il dramma circolò sino al 1840 e poi sparì, ricomparendo in Germania, al Festival Rossini di Wildbad, nel 1997 e nel 2017 – e soprattutto si ascolterà per la prima volta in edizione critica, curata da Alice Altavilla e Andrea Malnati per la fondazione Rossini. «Titolo che chiude il lungo lavoro del Rof, iniziato nel 1980, di presentare tutte le opere di Rossini in edizione critica» dice Jader Bignamini che sarà sul podio dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai per il titolo inaugurale del Rof 2023. Spettacolo che «è un’installazione, una coreografia con effetti visivi e sonori» di Stefano Poda che firma regia, scene, costumi, luci e coreografie. Daniela Barcellona è Eduardo, Anastasia Bartoli è Cristina, Enea Scala Re Carlo. «Una storia ambientata in Svezia – racconta Bignamini, nato a Crema, classe 1976, direttore musicale della Detroit Symphony Orchestra – storia di amori e figli tenuti nascosti che sfiora il dramma, ma che si risolve poi in un lieto fine».

Che effetto fa dirigere un’opera di Rossini in prima assoluta?

«Una bella sfida quella di far ascoltare per la prima volta al pubblico un’opera del 1819. Ma anche una grande opportunità perché ho potuto confrontarmi con i musicologi che hanno curato l’edizione critica, lavorare sui tempi, sui colori, sugli strumenti e sulle voci. Un bagaglio che mi sono portato in prova dove abbiamo lavorato di cesello».

Un’opera che si ascolta per la prima volta, ma che ha dentro molte melodie conosciute…

«Eduardo e Cristina, come altre opere di Rossini, è una partitura con molti autoimprestiti, pagine che il compositore prende da Ermione, Ricciardo e Zoraide, Mosè in Egitto, Adelaide di Borgogna. Melodie tragiche o buffe vengono riadattate e assumono un carattere, un colore diverso. Lavorare sull’edizione critica mi ha aiutato a mettere a fuoco questo. Ed è servito moltissimo anche il confronto con Poda, un regista intelligente che mette la musica in primo piano e ne segue sempre i tempi della musica. Eduardo è un’opera drammatica con un lieto fine. Si passa attraverso momenti diversi di dramma, di terrore, di battaglia con un’orchestra che diventa virtuosistica. E anche i cantanti hanno parti davvero virtuosistiche».

Perché è importante avere sul leggio l’edizione critica della partitura?

«Si può lavorare in dettaglio sul testo originale per riproporlo come se fosse eseguito per la prima volta. Certo se si conosce la prassi esecutiva di Rossini, che qui alla Rof è sempre messa al centro del lavoro, si può costruire e provare ad avvicinarsi all’interpretazione originale che avevano sentito gli ascoltatori della prima. A questo contribuiscono strumenti originali che Rossini volle inserire in partitura, il tamburlan, simile a un tamburo militare, poi una banda turca con suoni metallici per ricreare le atmosfere della battaglia».

Per lei terza volta al Rof, con un titolo che chiude le riscoperte rossiniane. Ma dobbiamo “scoprire” ancora qualcosa del compositore di Pesaro?

«Terza volta sul podio, dopo Ciro in Babilonia e uno Stabat Mater, ma ho una frequentazione assidua del Rof da quando ero clarinetto nell’orchestra del Comunale di Bologna. Non so se c’è ancora qualcosa da riscoprire, c’è sicuramente da tenere viva l’attenzione e la prassi esecutiva di questo repertorio. Come si suonano Mozart e Beethoven è una cosa nota. La prassi di Rossini è conosciuta dai frequentatori del festival. Il nostro compito è quello di cercare non solo di farla rivivere qui a Pesaro, ma di esportarla e di farla conoscere in tutto il mondo perché quest’autore sia eseguito e servito a dovere».

Da clarinettista a direttore. Tornerebbe indietro?

«Ho dato l’addio al clarinetto del 2011 anche se ho iniziato a dirigere già 19 anni. Prima dirigevo piccoli gruppi poi quando ho diretto un’orchestra ho capito che quello era ciò che mi completava davvero come musicista. Così ho deciso. Non tornerei indietro anche se ogni tanto suono in famiglia, con mia moglie e i miei due figli, tutti musicisti. Suonare il clarinetto è stato una parte della mia vita, importante anche per capire quello che faccio ora e per cogliere al volo gli stimoli e le richieste che mi arrivano dall’orchestra».

Direttore musicale di una delle grandi orchestre statunitensi… vale il detto “Nemo profeta in patria”?

«Non direi. Sono orgoglioso di essere un italiano negli Stati Uniti, musicista che guida una grande orchestra insieme ad altri tre direttori, il maestro per eccellenza, Riccardo Muti e poi Gianandrea Noseda e Fabio Luisi. Ma quando torno in Italia mi sento riconosciuto e valorizzato». Come al Rof.

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