mercoledì 9 maggio 2018
Nel film con Penelope Cruz e Javier Bardem, il regista iraniano racconta la scomparsa di una ragazza. Ma tra verità e menzogna, ciò che più conta è il bilancio umano e psicologico di una famiglia
Una scena di "Todos lo saben" di Asghar Farhadi

Una scena di "Todos lo saben" di Asghar Farhadi

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I suoi film sono come un tavolo da biliardo: le palle sono perfettamente disposte fino a che un’altra non le colpisce disperdendole e facendo assumere loro una nuova configurazione. L’iraniano Asghar Farhadi non abbandona questa dinamica neppure nel suo ultimo film, Todos lo saben, che ieri sera ha inaugurato la settantunesima edizione del Festival di Cannes portando sul tappeto rosso una delle coppie più glamour del cinema mondiale, ovvero Javier Bardem e Penelope Cruz.

Dopo Il passato, ambientato in Francia, nella periferia parigina, il regista lascia nuovamente l’Iran per approdare questa volta in Spagna, a Torre Laguna, poco distante da Madrid, in un paesino che ricorda l’Andalusia, a sua volta così simile, secondo Farhadi, alla sua terra.

La storia è quella di Laura, che vive in Argentina con i figli e il marito, ma che in occasione del matrimonio di sua sorella torna in Spagna, dove rincontra il suo grande amore, Paco. Durante la festa di nozze, la ribelle figlia adolescente Irene scompare. Si tratta di una fuga? Di uno scherzo di pessimo gusto? O forse di un rapimento, come Farhadi lascia sospettare allo spettatore grazie ad alcuni indizi? Il tragico evento fa riemergere verità e sentimenti nascosti, distrugge l’apparente normalità che regnava in famiglia e nella comunità, distrugge la vita di persone per bene e scoperchia le finzioni.

Come Farhadi ci ha dimostrato nei suoi film precedenti: nulla è come appare nei mondi da lui creati. In questo caso la suspance diventa il pretesto per raccontare rapporti umani universali, identici in tutto il mondo anche se non è mai nello stesso modo che le diverse culture manifestano emozioni e sentimenti. «Perché se i media sottolineano le differenze tra i popoli – commenta il regista – il cinema difende invece l’uguaglianza. Al cinema ti accorgi quanto si assomiglino le persone».

I temi che Farhadi affronta nel film non sono certo estranei al suo cinema, come la crisi familiare, la dissezione di una coppia, l’inchiesta su una sparizione (già raccontata in A proposito di Elly), la riflessione morale che scaturisce da un trauma, da uno strazio. «La famiglia è fonte infinita di soggetti e il riflesso dell’intera società. Quando si conosce una famiglia si può indovinare quello che c’è intorno ad essa. La suspance mi serve per tenere inchiodato lo spettatore sulla sedia fino alla fine, senza manipolarlo, ma rendendolo complice».

La suspance che il regista costruisce però lo rende più simile a Bergman che a Hitchcock perché quello che conta non è solo la risoluzione di un mistero, ma il bilancio umano e psicologico dei personaggi e di un’intera comunità lacerata da sospetti e accuse. Eppure una citazione del “maestro del brivido” c’è, in particolare da La donna che visse due volte , quando all’inizio del film la macchina da presa si sofferma su un orologio a pendolo, metafora del meccanismo della tragedia che si mette in moto. Da quel momento in poi, soprattutto nella seconda parte del film, Farhadi fa esplodere i suoi arabeschi da sceneggiatore mettendo a confronto coscienza e menzogna, raccontando le diverse facce del compromesso con se stessi e gli altri, trasformando i buoni in mostri.

Maestro nell’incastrare l’uno nell’altro drammi psicologici e nel tracciare repentini cambiamenti di punti di vista, il regista dimostra il suo virtuosismo stilistico con una macchina da presa sempre in movimento, capace anche di volare, ma trova sempre la giusta distanza per osservare i suoi personaggi.

Farhadi ha lavorato su questo film, con gli stessi Bardem e Cruz, per quattro anni e mezzo, ma l’idea parte da ancora più lontano. Quattordici anni fa infatti si trovava al Festival di Las Palmas quando sua figlia rimase molto turbata dalle foto di un bambino scomparso incollate sui muri della città. «Per calmarla ho dovuto spiegarle che essere rapiti è una cosa atroce, ma non accade spesso, e non in tutti i Paesi. Quella reazione è stata però la prima scintilla del film».

«Ho voluto cominciare questa avventura senza conoscerne i rischi – continua – per incontrare altre culture. Come quando ti tuffi in una piscina senza essere consapevole della profondità. Ho vissuto un anno e mezzo in Spagna, ho chiesto consigli a molti registi spagnoli per essere sicuro di risultare autentico. Tra me e gli attori, non star ma veri artisti al servizio del film, c’è stato uno scambio assai proficuo, creativo. Durante le prove ci siamo focalizzati sul comportamento dei personaggi cercando di raggiungerne il cuore. E poi io ho un metodo per scoprire come riprenderli: seguo prima gli attori senza macchina da presa, colorando le suole delle mie scarpe per capire i movimenti che devo fare successivamente. Gli angoli perfetti sono quelli con molti passi».

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