sabato 24 settembre 2022
Da oggi fino al 23 ottobre la rassegna di reportage propone venti mostre e cento fotografi. Tra le novità la tappa del World Press Photo
Uno scatto del progetto "Becoming a Citizen"

Uno scatto del progetto "Becoming a Citizen" - Isabella Franceschini

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Inizia a oggi la tredicesima edizione del Festival della Fotografia Etica di Lodi. Cento fotografi da tutto il mondo per oltre venti mostre popolano per cinque week end il centro della città lombarda, che per l’occasione apre spazi raramente accessibili al pubblico.
Nata come rassegna legata al mondo delle Ong, il festival si è ormai consolidato come tra i principali a livello internazionale dedicati alla fotografia di reportage. Lo testimonia innanzitutto il World Report Award - Documenting Humanity, cuore espositivo del Festival della Fotografia Etica in Palazzo Barni (sede anche del bookshop e degli incontri con gli autori, il programma completo e in aggiornamento sul sito del festival), con i relativi vincitori scelti dalla Giuria composta da Chloe Coleman, photo editor di “The Washington Post”, Gloria Crespo MacLennan, photeditor di “El Pais”, Alberto Prina e Aldo Mendichi, coordinatori del Festival.

Il vincitore della sezione Master è il brasiliano Felipe Fittipaldi. Il suo reportage "Eustasy" si focalizza sull’erosione costiera alla foce del fiume Paraíba do Sul, il cui sfruttamento della acque ha causato l’avanzamento dell’oceano non più contrastato dall’acqua dolce. Il risultato è la progressiva scomparsa della città di Atafona, già metà di turismo balneare, e l’erosione inesorabile delle vite dei suoi abitanti. Sono immagini dense, non di rado notturne, che restituiscono anche nella scelta linguistica la lentezza senza scampo di un’apocalisse ambientale e quindi umana.

Nella categoria Spotlight la norvegese Line Ørnes Søndergaard con “The Split - A Brexit Love Story”, oscillante tra Boston, cittadina britannica del Lincolnshire, e paesi baltici, entra nelle cause e nelle conseguenze dell’uscita del Regno Unito dalla UE, in cui immigrati e residenti condividono inconsapevolmente le catene di uno stesso disagio sociale e delle stesse tragiche illusioni.

Una foto del progetto 'The Split - A Brexit Love Story'

Una foto del progetto "The Split - A Brexit Love Story" - Line Ørnes Søndergaard

È invece segnato dalla cifra della speranza il notevole reportage vincitore della categoria Short Story, “Becoming a Citizen” della fotografa bolognese Isabella Franceschini, che ha seguito per sei anni Michelle una bambina e quindi ragazza di Castel San Pietro Terme eletta prima vicesindaco e poi sindaco del locale Consiglio comunale dei Ragazzi (un’esperienza normata in Italia per legge dal 1997 ma ancora troppo rara). È un racconto fotografico apparentemente semplice, antispettacolare e di rara onestà emotiva, in cui i momenti pubblici si intrecciano a quelli privati e seguono la maturazione e la presa di coscienza di una dimensione “politica”, di cosa significa bene comune e appartenenza alla storia. “Si diventa cittadini attivi a 18 anni quando si può depositare per la prima volta il voto nell’urna – spiega la fotografa - ma il percorso perché si sia maturata anche una consapevolezza di cosa significhi cittadinanza è spesso inesistente. Il mio è un racconto di piccole cose perché sono le piccole cose che fanno cambiare il mondo. Questi sono tutti bambini di una generazione desiderosa di un cambiamento, consapevole dei problemi ambientali molto più di noi adulti, a partire dalla ricaduta sul territorio in cui vivono. E con una propensione al cambiamento e a una energia tali da poter portare un contributo davvero attivo e innovativo alla amministrazione della comunità”.

Riuscite anche le mostre nella sede di Palazzo Modignani, con la sezione “Le vite degli altri”. Si tratta di sei focus fotografici in gran parte su comunità isolate nel mondo alle prese con le questioni della modernità. Il canadese Tim Smith con “In The World But Not Of It” ad esempio entra senza pregiudizio alcuno nella comunità degli Hutteriti, un gruppo di anabattisti le cui radici risalgono nella Moravia del XVI secolo e la cui cultura è preservata attraverso l’autosufficienza. Lo spontaneo isolamento dalla società, testimoniato da prassi di vita comune e dai costumi, si ibrida pacificamente però sia con la vita del mondo rurale nordamericano e sia con l’ingresso della tecnologia nella vita quotidiana.

Un pastore tibetano posta un video su TikTok

Un pastore tibetano posta un video su TikTok - Long Xiangyu

Ruralità premoderna e dimensione digitale collassano drammaticamente nel lavoro del cinese Xiangyu Long si confronta con le conseguenze di un video di sette secondi su TikTok postato da un pastore di yak del Tibet che ha reso l’autore in una celebrità online nel giro di una notte e ha trasformato in modo radicale la vita del suo villaggio natale, ormai interamente postata in una diretta senza fine. Vita digitale che non sembra toccare invece le steppe del Don nelle fotografie di Misha Maslennikov con The Don Steppe, dove la vita sembra ferma a più di un secolo fa. Una dimensione ancestrale pervade anche il reportage dell’italiana Erika Pezzoli che con Artemis racconta la storia della giovane Carola che fa parte del 2% delle cacciatrici donne in Valle d’Aosta e che ha scelto di consumare quasi unicamente la carne degli animali che caccia.

Si è catapultati invece nelle metropoli occidentali (ma sempre una questione di legami comunitari e rapporto con dinamiche sociali della modernità, in questo caso gli ingranaggi di un capitalismo che sbriciolano vite) con la canadese Barbara Davidson che in “Valeries and Henry: Unhoused but Unbroken” segue la storia di due dei 65mila senzatetto di Los Angeles, dal loro matrimonio all’allontanamento dal parco in cui risiedevano, dalla loro nuova vita in un furgone al ritorno alla vita di strada; e con il francese Thomas Morel-Fort che in “Donna, a Filipina Life of Sacrifice” documenta le vite dei lavoratori filippini sans papier impiegati o meglio sfruttati presso le case dei ricchi a Parigi e in Costa Azzurra ma anche quelle delle loro famiglie in patria.

Spazio infine anche a mostre forse meno di “ricerca” ma di sicuro impatto. Lodi diventa da quest’anno la sede della tappa lombarda del World Press Photo, il concorso internazionale di fotogiornalismo e fotografia documentaria più famoso al mondo che si svolge da oltre 50 anni e indetto dalla World Press Photo Foundation di Amsterdam. Nello spazio Bipielle Arte sono esposte 150 immagini dai 5 continenti. “Vital Impacts”, sia nell’ex chiesa dell’Angelo che nei Giardini pubblici di Loi, raccoglie in prima assoluta una serie di spettacolari fotografie naturalistiche firmate da un gruppo di fotografi di National Geographic e non solo, coinvolti da Ami Vitale

Gianluca Colonnese per il progetto Aisha

Completano il programma la sezione Uno Sguardo sul Mondo, con due percorsi realizzati in collaborazione con Agence France-Press su guerra in Ucraina e l’Afghanistan neo-talebano; all’ex Cavallerizza troviamo One Shot, in cui le foto singole sono chiamate a condensare intere storie, non di rado proiettate al positivo; lo Spazio No Profit nel chiostro dell’ospedale vecchio, presso la sede della Collezione anatomica Paolo Gorini quest’anno presenta ben tre progetti, dall’infanzia alla discriminazione femminile al Parkinson. Molte infine anche le mostre del Circuito Off.


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