venerdì 20 gennaio 2023
Il 31 ottobre 1993 moriva il regista premio Oscar. L'uomo che credeva alle coincidenze forse non si era accorto che i suoi capolavori li realizzò dal '53 all'83, suo numero ricorrente
Federico Fellini scomparso il 31 ottobre del 1993 in una caratteristica immagine mentre gira sul set

Federico Fellini scomparso il 31 ottobre del 1993 in una caratteristica immagine mentre gira sul set - Ansa

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Federico Fellini credeva agli «accadimenti esterni in coincidenza con altri interiori, che, a lume di logica, non avrebbero tra di loro nessun collegamento causale, ma è proprio a motivo di questa loro estraneità che la coincidenza assume un valore profondamente significativo ». Cercava conforto in Jung (sebbene non ne avesse alcun bisogno), per quegli avvisi che vengono dal profondo. I «rapporti che intercorrono tra il mondo della psiche e quello della materia» si scoprivano a distanza, perfino di anni e di secoli, attraverso il grande mare dell’essere, dove comunicano i vivi e i morti, al di là delle banali cronologie del quotidiano. Forse anche lui si meraviglierebbe delle sincronie che emergono attraverso una serie di sue ricorrenze legate ai decenni scanditi dal numero 3. Non credo ci abbia pensato. Il suo centenario (era nato a Rimini il 20 gennaio 1920) è stato celebrato tre anni fa. Ma oggi ecco, 2023, affiorano alla nostra memoria singolari scansioni decennali. Tali da formare una trama narrativa, aprono e concludono fasi, fino alla morte il 31 ottobre 1993.

Ma giù giù ecco 1983 E la nave va; 1973 Amarcord; 1963 81/2; 1953 Agenzia matrimoniale da L’amore in città, e I vitelloni; 1943 il matrimonio con Giulietta Masina, avvenuto il 30 ottobre (mese in cui i tedeschi devastano Cinecittà, bombardata nel 1944, e dal 1950 vera dimora di Fellini, che per «Cinemagazzino» nel 1939 intervista Osvaldo Valenti e Luisa Ferida – diventerà Greta Gonda in Intervista del 1987). E come non ricordare le suggestioni del 1933 che entrano in Amarcord? Due passaggi strappati dai miti: il 9 aprile la VII Mille e Miglia vinta da Tazio Nuvolari su Alfa Romeo Spider Zagato attraversa il Corso di Rimini; inaugurato d’agosto il Rex, il più favoloso, ineguagliabile transatlantico italiano, passa al largo di Rimini non nella realtà ma nell’incanto di una magia notturna.

Va detto che il 1933 di Amarcord accoglie in acronia il 1935 di Faccetta nera/guerra d’Etiopia e il 1937 di Ginger & Fred/Voglio danzare con te: il vero tempo interiore di un ragazzo nato nel 1920. Questi anni scandiscono la vita di Fellini nei tempi dell’immaginazione, che per lui coincideva con la vita vera interiore. Ma formano singolari sincronie anche con la storia, sebbene ciò sembri scomparire a distanza, o invisibile nella contemporaneità. Non c’è un film di Fellini che non lo dimostri. Nel 1953 Agenzia matrimoniale da L’amore in città, e I vitelloni segnano la risalita dopo la dêbacle economica e critica de Lo sceicco bianco, un puro capolavoro con la sua parodia dei fotoromanzi, dove brillano due straordinari Alberto Sordi e Leopoldo Trieste.

In Agenzia matrimoniale l’impressionante casermone kafkiano dell’Ospedale di San Michele a Ripa bucherellato dalle bombe fa sembrare normale la proposta surreale fatta per beffa dal giorna-lista: il matrimonio con un miliardario licantropo che la ragazza poverissima accetta devotamente. L’orrore non era diventato una norma negli anni di guerra, come non solo Malaparte aveva documentato ne La pelle? Poiché Zavattini per Amore in città aveva chiesto di lavorare su fatti reali, Fellini si era divertito a inventare tutto, in quegli anni di «comiziesche dichiarazioni sul neorealismo». Gli autori del film reportage caddero nella trappola: «Hai visto, caro Fellini, che la realtà è sempre più fantastica della più sfrenata fantasia»?

Il 1953 dei Vitelloni è l’apoteosi del mito della provincia sonnolenta, di Rimini dalle stagioni divise a metà, del sogno di evasione, dell’impossibilità di crescere del maschio italiano che avrà il culmine in Casanova. Nel mito dei Vitelloni Fellini mostra ancora il passato italiano immaginario, proiettandosi nel futuro, anticipando i due film con cui farà veramente i conti con se stesso: il modernissimo 81/2, e Amarcord. In Fellini c’è sempre la trasposizione autobiografica trasfigurata: un autore parla sempre di se stesso, anche quando parla d’altro. Compaiono i nomi in riflessi, da Moraldo, l’amico Rossi che parte come lui per Roma e ne sarà l’aiuto ne La dolce vita e qui gli presta il suo: un po’ funambolo, come il Matto de La strada nell’anno successivo. Compare la solitudine del mare d’inverno.

Vero come lo è qui, e soprattutto finto, non manca mai negli sfondi di Fellini: il profondissimo inesplorabile inconscio. Mare desolato come la desolante clownerie del maschio – fratello, amante, marito, padre, figlio – vergognosamente inadeguato dovunque, fino ai processi della Città delle donne, verso la sorella, amante, sposa, madre, figlia. Clownerie sublime, che non risparmia nessuno, in ogni grado e forma, qui esplicita nel testone trascinato da Sordi, tra i cascami del carnevale, futuro emblema fastoso e funebre dalla laguna di Venezia in cui sprofonda la vita stessa, non solo il suo aborto Casanova, ma anche, prima di tutto, simbolo del rischio dell’artista, ora acrobata, ora essere degradato, e abitante dell’altrove fuori del mondo. La reinvenzione della memoria e di sé parte dai Vitelloni proiettandosi su Amarcord nel 1973, vent’anni dopo.

Qui il senso dell’immersione e del distacco che porta a una ridefinizione della storia più esatta, perché vissuta tra imbarazzo, nostalgia, ironia, vi fu esaltato. Come disse Calvino, «Fellini mette sempre le divise giuste e il clima psicologico giusto degli anni che rappresenta». Ma se nel 1963 81/2 focalizza la crisi d’artista e non solo, a quattro anni dalla Dolce vita, non potrebbe essere più riassuntivo di tutta la letteratura moderna, che con infantile puntiglio intellettuale i critici si precipitarono a riconoscervi. 81/2 fu acclamato al premio Mosca in luglio, il 22 novembre Kennedy veniva ucciso a Dallas. Fellini cercava se stesso e si reinventava a ogni film. Come Gelsomina della Strada e più tardi Giulietta degli spiriti, anche Cabiria era lui, e assorbiva un sacro che andava oltre Pasolini. Il Satyricon era talmente lontano che niente appariva più vicino. La follia mortale di Toby Dammit da Poe diventava quella di un attore drogato sullo sfondo di premi romani e cattolici d’avanguardia.

In Prova d’orchestra un direttore nevrotico riassumeva il contrasto tra ordine e disordine – problema eminentemente artistico - tra la Politica di Aristotele e Massa e potere di Elias e Canetti, fra l’assassinio di Moro e gli anni delle stragi. Ginger&Fred e La voce della luna non erano solo manifesti contro la società di massa delle televisioni berlusconiane, delle copie, e della sagra del brutto, ma un potente richiamo al silenzio, come nei Canti di Leopardi. Il 1983 di E la nave va, il cui contratto fu firmato su un aereo tra Hong Kong e Bombay da Cristaldi e Sergio Zavoli (nato nel 1923, ecco un altro 3) coproduttore per la Rai, è una fusione di profezie. Inquietantissime. Sarajevo, impero austro-ungarico che crolla, l’immensa lirica della tradizione italiana ed europea che muore: pathos, suicidio come tema, fumi di un tramonto che non si esaurirà forse mai, perché, suggerisce la rinoceronte tratta dalla stiva, il suo latte continuerà a nutrire ed è speranza: spes contra spem.

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