giovedì 20 agosto 2009
Sergio Cecconi, ex deportato, racconta la testimonianza cristiana di un gruppo di italiani in un campo di concentramento: «Il circolo fu dedicato a Renato Sclarandi, un ragazzo torinese ucciso da una sentinella nazista mentre portava le ostie per celebrare una messa»
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La tessera dell’Azione cattolica spedita al giornale è antica e consunta. Campo di prigionia di Gross Hesepe, c’è scritto; e «Gruppo Renato Sclarandi». Sotto, tante firme. Data, 1945. L’ha inviata in redazione un anziano lettore, classe 1921: ovvero 88 anni in questa mattina torrida d’agosto, in una villetta a Cittadella, periferia di Mantova. Sergio Cecconi, ex maestro elementare, per anni presidente diocesano di Ac a Mantova, ha mandato quella vecchia tessera ingiallita ad Avvenire per ricordare, oltre 60 anni dopo, la storia preziosa di un gruppo di giovani ufficiali, nel campo di prigionia dove la guerra li aveva portati. E quasi depositati, dopo le infinite traversie e sconfitte dell’esercito italiano, apparentemente come schegge in una Europa devastata. Eppure, qualcosa tenne insieme e fece come rinascere quei ragazzi, dietro il filo spinato. Nel tinello afoso di un giorno d’estate del 2009 Cecconi – magro, i capelli bianchi e gli occhiali, il portamento eretto da maestro abituato a stare in cattedra – racconta. Nel marzo del ‘44 Cecconi è un sottotenente dell’84 esimo reggimento di fanteria della divisione Venezia, quando viene fatto prigioniero dai croati, e consegnato ai tedeschi. Passerà per cinque campi, da Sarajevo a Zenica, fino a Gross Hesepe, in Germania, vicino a Meppen, alla frontiera con l’Olanda. Mesi di deportazione in carri merci, e fame, e inquietudine per l’avvenire: sballottati come povere cose nel vortice della guerra. Ma questo, te lo devi immaginare: Cecconi, di tanti patimenti, non dice. Ciò che gli preme ricordare, di quei giorni, è altro: la singolare luce che emanava da un gruppo di compagni italiani, fra le baracche di Gross Hesepe. Una strana serenità, fra quei prigionieri affamati. Tale per cui lui, 24 enne, non potè non avvicinarsi affascinato, e sottoscrivere quella tessera di Ac, e diventare dei loro. «La nostra guida era Rimero Chiodi, un bergamasco, un uomo di una fede straordinaria. Era lui a condurre la vita cristiana del campo: messe, rosari, incontri. Lui a guidarci alle visite al cimitero dei prigionieri di guerra, e al campo di Fullen, chiamato il 'campo della morte', dove erano ricoverati i prigionieri malati. A un certo punto anzi Rimero, insieme ad altri, scelse di restare a vivere a Fullen, con i tubercolotici, con quelli che forse non ce l’avrebbero fatta a tornare; e con loro rimase per mesi dopo che, il 5 aprile del ‘45, arrivarono i canadesi a liberarci». La prigionia nei campi tedeschi, i maltrattamenti verso gli italiani «traditori», i lunghi giorni confinati, appaiono nel racconto del maestro mantovano trasfigurati. Pare quasi che quei mesi del 1945 siano, nella memoria di quest’uomo anziano, il fiore più bello della sua giovinezza. «Ci chiedevano, gli altri: ma voi, come fate a essere così sereni? Noi rispondevamo semplicemente: noi crediamo in Gesù Cristo». La figura dell’amico Chiodi domina i ricordi nella villetta di Cittadella. Cecconi racconta, e d’improvviso nella gran calura padana tace. Poi: «Vede, la santità è un mistero. Non siamo tutti uguali. Ti veniva da chiederti, di fronte a quell’uomo: perché lu e mi no? Perché io per quanto faccia sto semplicemente a galla, e lui ci trascina tutti? Era sempre così libero e lieto». Renato Sclarandi, cui era dedicata la «cellula» di Ac a Gross Hesepe, era un ragazzo torinese che venne ucciso da una sentinella nel campo di Hammerstein, nel ’44, nell’atto di portare le ostie per una messa nel campo. Dal petto il suo sangue si allargò sulle ostie. E chi vide non dimenticò quel sacrificio e quel sangue misteriosamente sparso sul pane della Messa. A Gross Hesepe, pochi mesi dopo, un gruppo di ufficiali fece di Sclarandi la sua bandiera – fra uguali reticolati di filo spinato. Il simbolo della libertà immensa dei cristiani, che nessun muro può rinchiudere. Quale Italia immaginavano i ragazzi di Ac nelle camerate della prigionia? Il dibattito si alimentava di incontri appassionati, continuava fra i letti a castello, la sera, nelle baracche. «Siamo pronti – dicevano – per fare l’Italia democratica». Quale Italia? Speravano forse in un Paese trasformato dal sacrificio di tanti. Sognavano un’Italia profondamente cristiana. Ma non trovi amarezza nel signor Cecconi, oggi: «Non si può essere delusi, finché si continua a lavorare e a darsi da fare. E io, alla mia età, nella mia parrocchia qui a Cittadella continuo a impegnarmi. Per lamentarmi, non ho tempo». Che è la stessa logica di quella lontana prigionia. Nessuna lamentela. Pregavano, quei ragazzi, facevano, speravano. Mentre parliamo qualcuno bussa alla finestra, qui al pianterreno. Cecconi sa bene chi è: «È la mia Africa», sorride, mentre allunga una moneta nella mano di un ragazzo nero. Quello, è andato a colpo sicuro: sa che alla modesta porta si può domandare. E pensi a quanta animosità e paura cova in questa pianura padana verso gli stranieri. In questo vecchio, niente. Bussano. Senza paura apre, e sorride alla «sua Africa». Dai cassetti Cecconi tira fuori un liso piccolo vangelo, letto e riletto e consunto. E un suo quadernino nero, scritto a calligrafia precisa e minuta, da maestro. «Sono appunti sulle lettere di san Paolo. Li ho scritti in quei mesi di prigionia». E nelle righe fitte pare come depositato il silenzio della notte sul campo, gravida di attese e di domande. Il giovane maestro, in pace, meditava Paolo. Tornò a Mantova attraverso il Brennero, il 9 settembre del ‘45. Arrivò in città alle due di notte. Chissà, pensi, cosa aveva nel cuore un soldato scampato a tante morti, nel calpestare di nuovo, nel fondo silenzioso della notte, la terra piatta e quieta della sua Lombardia. Quale ringraziamento. Quali speranze. Una famiglia, un lavoro. A due mesi dal ritorno Cecconi è già in cattedra, maestro di una nidiata di bambini a Castellaro Lagusello, nelle campagne. Le nozze, i tre figli, la vita che riprende. L’impegno nella Chiesa. Quella gloriosa tessera che, in un cassetto, adagio adagio ingiallisce. Cecconi scorre col dito l’elenco dei suoi compagni. Quasi tutti sono morti. Ha scritto ad alcuni, pochi anni fa, ma pochi gli hanno risposto. La morte si è presa infine i ragazzi di Gross Hesepe. La moglie di Cecconi se ne è andata, una figlia anche; dagli altri due ha avuto nipoti e pronipoti. Ha insegnato a scrivere a generazioni di bambini. E, discorrendo, s’è fatto mezzogiorno. Suona da una chiesa vicina il tocco. Cecconi smette di parlare, alza la testa: «L’Angelus Domini», dice – fedele a una antica memoria cristiana. L’impronta forte di Cristo, stampata come nell’aria che si respira in questa piccola casa caldissima sotto il sole di agosto allo zenith. La guerra, la pace, la vita, il lavoro, la morte, acquistano tra queste mura una forma composta. Ordinata: come di un tempo che ha marciato e marcia, obbediente, verso un destino buono.
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