venerdì 27 gennaio 2023
Una retrospettiva sul pittore livornese mostra l’antiretorica del tema militare e svela la compassione dell’artista verso l’umanità degli umili e degli anonimi
Giovanni Fattori, “L’appello dopo la battaglia del 1866” (particolare)

Giovanni Fattori, “L’appello dopo la battaglia del 1866” (particolare) - opera esposta nella mostra "Fattori. L'umanità tradotta in pittura" a Bologna

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All’umanità si affida la mostra che Palazzo Fava accoglie nelle sue stanze per celebrare il genio pittorico del livornese Giovanni Fattori. Ma di quale umanità si tratta? Sta per genere umano, forse? Quindi Fattori come realista rigoroso che nelle fibre della pittura racchiude una fotografia dei vari tipi umani che ritrasse nella sua lunga carriera: soldati, signore del ceto benestante, contadini, anziani, marinai, butteri, bambini, e come corollario anche quelle realtà naturali che popolano i mondi d’acqua, terra e aria così frequenti nella sua pittura che non è mai in senso stretto “di paesaggio”... Tutto questo sicuramente lo si ritrova nell’immaginario di Fattori, ma era questa rappresentazione che a lui interessava? In una lettera dei primi del Novecento gli esce quella parola chiave che ci permette di dire che l’umanità di Fattori è tutta interiore, è uno sguardo partecipe, empatico, che non dimentica ma la tragicità della vita. L’espressione che usa è chiarissima: «Tutto ho compatito». E i primi a essere oggetto della sua compassione furono i soldati, gente spesso anonima e umile, chiamata al sacrificio per un tozzo di pane. Il quadro di Fattori calato in un’atmosfera risorgimentale più riuscito sotto il profilo formale e costruttivo è Garibaldi a Palermo. Un capolavoro che celebra l’eroe dei due Mondi ma contiene nelle sue fibre, nella nebbia che s’alza dalla battaglia condotta all’ingresso della città, una promessa di disfacimento futuro che si ripresenterà nella nostra storia lungo i decenni successivi all’Unità d’Italia e fino al Fascismo e oltre (per non dire del nostro tempo). Alla metafora avvelenata il critico letterario Massimo Onofri, in occasione de centocinquantesimo dell’unificazione, diede un titolo eloquente: L’epopea infranta. Ed è proprio il sentimento di estatica epopea che Fattori ha saputo rendere nei colori e nei momenti della battaglia, dove Garibaldi fiero sulla sua cavalcatura immobile sembra non essere minimamente toccato dalle morti che si consumano tra le sue stesse camicie rosse avvolte dai fumi della guerra condotta alla Porta Termini della città siciliana, dipanandosi come un piano sequenza cinematografico. Una epopea retorica e necessaria a reggere la cattiva coscienza di chi volle una unificazione sulla quale molti storici ancora oggi hanno riserve, in particolare per l’inganno verso le plebi, soprattutto quelle meridionali. Non è questa la sede per discorsi così specifici, tuttavia la mostra della pittura di Fattori mi ha fatto pensare come sia a suo modo un unicum il quadro palermitano rispetto alla continuità del “tema militare” nella pittura del livornese. Si potrebbero tirare in ballo, accanto a Fattori, la pittura di analogo tema di autori coevi come Gerolamo Induno, Silvestro Lega o del lombardo Federico Faruffini, ma sarebbe un modo per svilire la carica esemplare non tanto di quella epopea quanto del rovello esistenziale che ha sempre accompagnato Fattori mentre dipingeva, ancora ai primissimi del Novecento, scene che denotano una memoria esperita nella propria coscienza del sacrificio e del dolore dei fantaccini e dei loro ufficiali che combattevano per un ideale ancora nebuloso quale poteva essere quello repubblicano. Quando l’opera Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta verrà scelta all’interno di quelle iscritte al concorso promosso alla fine del 1859 da Bettino Riccasoli per celebrare la vittoria dei franco-piemontesi contro gli austriaci – uno degli episodi storici che segnò la “redenzione italiana” come dirà lo stesso Fattori –, quest’opera è soltanto l’inizio di una storia che legherà l’artista in modo pressoché ininterrotto al tema militare. Eppure anche il quadro della vittoria a Magenta non ha ancora quella asciutta verità umana che porta il pittore a condividere il sentimento di quei militi che sta dipingendo. Tela di gradi dimensioni, lo spaccato del dopo battaglia ha una precisione quasi lenticolare nei dettagli nonostante la sua notevole ampiezza, ma non ha tuttavia guadagnato l’introspezione che, per esempio, si coglie, con un velo di austera tragicità, in Appello dopo la battaglia del 1866, esposto a Palazzo Fava nella retrospettiva curata da C. Fulgheri, E. Matteucci e F. Panconi (fino al 1° maggio; catalogo Skira). Ecco l’austera evidenza del cavallo morto, ormai liberato della sua inutile bardatura, contrappunto ingombrante per la rassegnata coscienza del soldato, l’unico della sua compagnia rimasto senza cavalcatura. Eseguito nel 1877, venne accolto da un critico con un giudizio ingeneroso: «Non è un tappeto nuovo, è un arazzo un po’ usato…», così l’«opacità delle sue tinte » è soltanto il viatico a «una certa tristezza nella scena, che avviene dietro un rialto di terreno, piantato d’alberi dritti…». Giudizio severo che relativizza la bellezza e la forza del quadro, ma in realtà intercetta, senza esserne cosciente, lo stato d’animo con cui il livornese dipinge i suoi eroi anonimi. Accade quasi sempre che i dipinti di tema militare in Fattori siano avvolti d una sorta di inscindibile prospettiva d’insieme che si condensa, inizialmente, nel linguaggio della macchia, all’epoca di Castiglioncello – accampamenti di bersaglieri o i soldati francesi raffigurati in quel piccolo formato basso e lungo che ritorna nel gruppo macchiaiolo, quasi come una composizione di colori che mette a frutto, con plastica osmosi delle forme, la macchia come tessera di un mosaico o intarsio di pietra dura –; ma gli anni Sessanta mostrano già uno sviluppo della tecnica che rende più descrittiva la composizione della scena, come Nell’episodio di assalto alla Madonna della Scoperta, e via via, filtrando gli apporti dell’impressionismo, le scene militari degli anni Settanta, dove, senza venir meno al primato della pittura, alle sue ragioni formali, Fattori sembra condividere il disagio e la stoica e silenziosa accettazione di un destino che ogni soldato porta sulle spalle non appena la battaglia entra nel vivo (la terra di nessuno, dopotutto, è l’esperienza di quel fatale incontro con la morte). Però Fattori più spesso ritrae le pause al campo, quando il tempo si riempie di pensieri in attesa che arrivi l’ordine di prepararsi all’attacco. Una lettera, un dispaccio, uno sguardo, la cura dei cavalli, le tende da campo, la rassegnata dignità dei soldati nel sacrificio per un paese non ancora nato. Con distacco l’occhio che osserva tutto è quello di un rustico Diogene guidato dalla calma austera del pensatore disincantato. Ed ecco cosa scrive nel 1904 Fattori, dopo aver detto che si sente invecchiato: «Avendo molto veduto, sofferto, e tutto provato, e amato, e non odiato mai! Tutto ho compatito e cercato di essere utile». L’utilità del testimone e del collezionista di sentimenti di cui la sua arte rende duratura la memoria. Si coglie in ogni fibra di pittura questo dolore nello sguardo che non si ritrae di fronte al proprio compito. È antiretorico e insofferente alle onoreficienze, Fattori. Quella calma con cui osserva il destino dell’uomo che va incontro alla morte, e che se anche può salvarsi, d’altra parte, sembra far difetto la coscienza del valore del proprio sacrificio – un valore a cui l’artista offre il proprio canto senza retorica –, corrisponde negli altri temi pittorici alla calma del mare che si allunga all’orizzonte, agli animali che brucano l'erba o vivono da fedeli e mansueti compagni di viaggio dell’uomo; i bovi della maremma sembrano persi nello sguardo mentre i butteri radunano la mandria; ma l'introspezione di uno sguardo umano non ha la stessa qualità di quella che coglie con sorda franchezza l’abbandono delle bestie, anime irrazionali, incapaci di elaborare il sentore della violenza e della morte che alita nel mondo. Le figure si condensano silenziose in mere macchie di colore, lingue di paesaggio, dove a ben vedere la natura vive nella propria selvatica schiettezza, ma nella cui vita sembra non accadere mai niente. La natura e il mondo di Fattori sono resi eterni dal tacet del pittore che diventa un vero e proprio incantesimo: e quando, come nella tela Cavalli in fuga, qualcosa avviene e la scena si mette in moto, ecco che il sortilegio della realtà si perde. Non si possono certo sminuire i ritratti, anzi si deve osservare la forza esemplare nel definire un personaggio senza ricorrere a simbolici attributi, come nel caso dei due marinai la cui fisiognomica rimanda alla fatica e alla dura scorza forgiata dal mare, come il colore dei volti parla della pelle cotta sotto i raggi del sole meridiano. Eppure, la compassione che Fattori dichiara, rende i suoi dipinti di ambito militare qualcosa di molto diverso dai quadri dei “battaglisti” e dei memorialisti storici, sul genere seicentesco di Cerquozzi o Tempesta; per quanto possa risultare un accostamento improprio, perché rimette in gioco un romanticismo che il pittore si era gettato alle spalle proprio abbracciando il mondo dei soldati, lo sguardo di Fattori mi fa pensare alla compassione disperata ed epica del francese Antoine-Jean Gros, ma stemperata dall’occhio incredulo di Courbet. Indubbiamente, Fattori fin da Castiglioncello, ebbe un’attenzione particolare per ciò che rappresentava la Francia, e non si dimentichi che dal Caffè Michelangelo passò anche il grande Degas che Martelli frequentò (venendone ritratto) e di cui propagò l’ideale antiretorico almeno tanto quanto il mondo anonimo, di spalle, che Fattori talvolta dipinge nelle sue scene militari. Forse in quell’anonimato si pone anche la domanda del pittore su quale risarcimento il mondo può dare ai tanti giovani uomini sacrificati alle ambizioni dei potenti (e prova a farlo con la sua pittura).

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