venerdì 17 marzo 2023
Un originale volume ci restituisce i secoli medievali attraverso l’evolversi dell’illuminazione artificiale che aveva per protagonista il fuoco e i suoi supporti
Particolare di una miniatura dal “Libro dei tornei”, 1460

Particolare di una miniatura dal “Libro dei tornei”, 1460 - archivio

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«Far della luce è cosa più preziosa che fare dell’oro»: così si esprime un personaggio dell’Annonce faite à Marie di Paul Claudel. La luce è una delle protagoniste del “buio” medioevo: i costruttori di cattedrali gotiche sapevano perfettamente come accendere i loro immensi edifizi decorandoli di vetrate policrome che letteralmente si accendevano con i raggi del sole che, a seconda delle ore del giorno, penetrava al mattino dalle alte finestre dell’abside orientato ad est, quindi a mezzogiorno attraverso l’infocato rosone del transetto meridionale, quindi nel pomeriggio illuminava da sud le navate, infine incendiava dei colori del tramonto la navata centrale: e la festa dei gialli zafferano, dei rosso fuoco, dei verde mare e degli azzurri zaffiro riempiva la casa del Signore di colori vivi e sgargianti.

Mi aspettavo infatti un libro sulla luce: quella fisica del sole nelle cattedrali, quella intellettuale e metafisica degli ottici, dei filosofi e dei mistici. Invece no, e per fortuna, in quanto di libri di quel genere ce ne sono abbastanza. D’altronde Beatrice Del Bo, medievista dell’Università Statale di Milano, si occupa con successo di storia economica e sociale: perché mai avrebbe dovuto occuparsi di metafisica, di fisica, di ottica e di matematica? Invece essa ha scelto, squadernandoci davanti una quantità impensabile di fonti note e meno note tanto cronistiche quanto documentarie quanto iconiche, di fornirci una molto meno abituale storia delle luci e dei lumi del medioevo occidentale, delle occasioni di fare luce in pubblico e in privato, dei mezzi e degli strumenti. E giocoforza, facendo la storia dei lumi, ha fatto anche quella del buio, dell’oscurità di ogni genere e origine, della note. Va detto quindi subito che L’età del lume. Una storia della luce nel Medioevo (Il Mulino, pagine 290, euro 20,00), libro suggestivo - ed, è il caso di dirlo, “illuminante” –, ha sì un’indiscussa protagonista, la luce artificiale, ma altresì un’iperprotagonista che la produce. Ed è la cera d’api insieme col suo umile compagno e succedaneo, il grasso animale (o “sego”). Certo, se si parlasse dell’antichità mediterranea, protagonisti sarebbero la lucerna e l’olio: e non è che nel medioevo non ve ne fossero. Ma nell’Europa occidentale la regina dei lumi era piuttosto la cera d’api, che col miele e col grano e col legname giungeva in quantità massicce dalle pianure russe attraverso il Mar Nero: il che non toglie ovviamente che ve ne fosse anche una produzione autoctona, magari meno abbondante. Fiammella d’olio e fiammella di cera o di sego non producono lo stesso tipo né di luce, né di odore. Scuotetevi dalla viziosa comodità della luce elettrica e provatevi di notte a vegliare o a studiare qualche ore alla luce cruda d’una candela: dopo qualche ora avrete gli occhi rossi infiammati, la bocca arida e piena del sapore untuoso della cera o del grasso (ma anche l’olio è micidiale), a meno che, compiendo un tanto ardito quanto maldestro anacronismo, non preferiate uno di quei monumentali lumi a petrolio ancor più fumosi e maleolenti delle candele per quanto più potenti di esse. Roba da Bohème o da Fanciulla del West.

Certo, a parte tutto ciò vi era la fiamma del caminetto, che poteva essere allegra, luminosa e confortevole: ma inadatta sempre e comunque alla lettura. Candele, candelotti, lumini e ceri, quindi, e magari torchi e fiaccole coi loro supporti da esterno e da interno; e ancora perfino mozziconi di candela (quelli che in Toscana si dicono volgarmente “mòccoli”, parola impegnativa e possibilmente da evitarsi). E ancora, i portacandela: candelabri (quelli che poi diventeranno lampadari), candelieri di varia foggia, bugìe, lanterne, lucerne, làmpane. La città medievale, con il coprifuoco, diventa il regno del buio: squarciato tuttavia da luci e da lumi di vario tipo, consentiti o clandestini. Quando poi vi sono feste o processioni, le luminarie divengono grandi, talvolta perfino immense, e davvero impressionanti. A partire almeno dal Tre-Quattocento entrano in gioco gli specchi, a riflettere e moltiplicare le luci. Un lampadario al centro di una stanza sulle quattro pareti della quale siano appesi altrettanti specchi s’illumina magicamente d’una miriade di luci riflesse all’infinito. Luci vive, spesso libere, pericolosissime: e gl’incendi, in quel mondo, sono correnti e crudeli. Ma anche una magia il ricordo della quale riempie ancora gli occhi di noialtri vecchi, che abbiamo magari superati gli otto decenni di vita e ricordiamo scene di notti del tempo di guerra o di luoghi montani e isolati, dove si camminava al buio delle miglia e a confortarci c’era solo una lucina lontana lontana, come nelle fiabe. E poi le luci del cuore. Le candeline dei vecchi alberi di Natale, un walzer o un a cena al lume di candela… Chi ci restituirà mai quelle sensazioni, quella magia?

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