mercoledì 26 dicembre 2012
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Dal preconcetto tanto diffuso secondo cui esiste in sé un «problema fame» deriva, secondo la logica dello stato assistenziale a cui siamo stati abituati, che il problema rientra nelle competenze degli stati e del denaro che questi possono erogare o che possono ricevere a questo scopo come aiuti internazionali. Si è così diffuso nel 2008 l’argomento secondo cui basterebbero 30 miliardi di dollari per «assicurare lo sviluppo agricolo e la sicurezza alimentare in modo duraturo». E ciò ha fatto montare l’indignazione: confrontate dunque questi 30 miliardi di dollari con i 700 e i 300 miliardi che gli Stati Uniti e l’Europa devolvono rispettivamente per salvare le loro banche! Ma supporre che gli aiuti tecnici possano essere generalizzati a tal punto significa tenere poco in considerazione gli ostacoli contro cui si scontrano generalmente. Quanto all’idea secondo cui i Paesi del Nord avrebbero la vocazione di sfamare quelli del Sud, ebbene, costituisce anch’essa un preconcetto resistente che conviene abbandonare. Un presidente di sindacato agricolo francese diventato poi ministro dell’Agricoltura non augurava forse del pane francese per tutti gli africani? Anche gli Stati Uniti hanno ampiamente accreditato l’idea di avere la missione di sfamare il mondo. Ma occorre tornare a guardare i fatti in faccia. La popolazione agricola attiva dei Paesi del Nord sta rapidamente calando: dal 1970 al 2005, è dimezzata. È vero che nello stesso lasso di tempo la produzione è cresciuta del 50%, ma ci si può chiedere se potrà ancora crescere, con una popolazione attiva che continua a calare e dei rendimenti che cominciano a raggiungere il limite, nonostante le promesse della scienza. Pretendere di nutrire il mondo in queste condizioni è avventato. Del resto, se nel 1970 il Nord produceva più del Sud, nel 2004-2005 la situazione era già ribaltata. Il Sud produce ormai più del Nord: la sua popolazione attiva agricola è cresciuta del 50% nello stesso periodo, mentre la produzione agricola è più che raddoppiata. Ne traggo la conclusione che non spetta al Nord sfamare il Sud e sono profondamente convinto che spetti al Sud nutrire il Sud.Il problema dell’alimentazione su scala mondiale si è dunque spostato oggi. Il Nord non può sfamare il Sud. Il Sud deve nutrire il Sud, ma tutta la questione sta nel come... Produrre molto e il più velocemente possibile è davvero una priorità, come sembravano suggerire la conferenza Fao del giugno 2008 e i governi di numerosi paesi del Sud (India, Cina, Brasile...)? Certi dotti professori arrivano a raccomandare addirittura l’impiego di organismi geneticamente modificati per accelerare il processo. Solo che dimenticano che il loro impiego, come del resto quello di tutto il «pacchetto tecnico» (sementi selezionate, concimi, pesticidi...), ha costi alti e dunque è inaccessibile ai piccoli contadini dai redditi limitati. Ora, abbiamo visto che questi rappresentano i tre quarti dei contadini dei Paesi del Sud. Non proporre migliorie onerose ai contadini senza mezzi è una questione di semplice buon senso, o almeno dovrebbe esserlo. Sembra invece logico spingerli a guadagnare di più con metodi semplici e poco costosi. Ciò è possibile, e ci torneremo. Al contrario, accelerando a colpi d’irrigazione, grosse rese, Ogm ecc., si moltiplicano gli esclusi.Per tornare alla domanda: «Come sfamare 9 miliardi di uomini?». L’ipotesi di sfamare il Sud a partire dal Sud appare ormai verosimile, se osserviamo che aumentando del 30-40% la produzione dei contadini di queste aree, si otterrebbe di più rispetto a un analogo aumento tra gli agricoltori del Nord. Peraltro, ciò richiederebbe meno investimenti. Si pone allora una scelta decisiva. Promuoveremo la modernizzazione (già avviata) di circa 200 milioni di contadini modernizzati a metà, così da permettere loro, ad esempio, di raddoppiare la produzione? Ma allora abbandoneremo un miliardo di contadini poveri alla loro triste sorte: ovvero, a breve, alle baraccopoli. In altri termini, il problema alimentare mondiale non è innanzitutto una questione di quantità, ma di equità. A dirlo chiaramente sono le parole di Gandhi: «L’importante non è una produzione di massa, ma una produzione da parte delle masse».Non è niente di meno che una rivoluzione del pensiero, ma è il prezzo da pagare per consentire alle nostre società di evolvere. «La vera generosità verso l’avvenire consiste nel dare tutto al presente», scriveva Camus nell’Uomo in rivolta. In questo spirito, si esprimono già resistenze contadine sempre più vigorose in Asia, America Latina, Africa e nella stessa Europa. Collegandosi fra loro, esse si rafforzano. Al contempo, dei lavori teorici denunciano quello che un giorno apparirà come impostura e pigrizia mentale. Questi sforzi, basati sui valori di equità e democrazia, riusciranno a far nascere nuovi paradigmi e nuove pratiche per il secolo che si apre? Viviamo in un’epoca tragica, certo, ma appassionante...
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