mercoledì 17 maggio 2023
Per lo scrittore argentino, al Salone di Torino con “Le pianure”, «la vita, a differenza dell’arte, manca di forma; è imprecisa e imprevedibile»
Federico Falco

Federico Falco - © Veronica Maggi

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Raccontare il tempo che passa. Questa è l’ambizione di Federico Falco, autore argentino appena uscito con Le pianure (Sur, pagine 240, euro 17), romanzo ambizioso che racconta la fine di una relazione e la ricerca di un nuovo equilibrio che passa attraverso un ritorno alla natura e a un tempo lento, essenziale, fatto di solitudine e vita dopo l’amore. Abbiamo intervistato Falco a partire da questi temi, in occasione del suo tour in Italia, che inizierà il 19 maggio al Salone del Off e il 20 al Salone e si chiuderà a Roma il 24 maggio, alla Libreria Giufà. In mezzo ci sarà un appuntamento il 22 maggio alla Libreria Biblion e il 23 maggio alla libreria Arcadia di Rovereto.

Come è nato questo libro?

Scrivevo racconti da molti anni e sentivo che quel formato si era esaurito per me. Così ho deciso di iniziare a scrivere senza meta. Ho iniziato a prendere appunti sui processi del mio orto e, allo stesso tempo, dopo la morte di mio nonno, su tutta una serie di ricordi d’infanzia e del tempo che avevo trascorso con lui. Insieme a tutto ciò, pensavo da tempo alla possibilità di scrivere qualcosa sui processi di scrittura e, soprattutto, su cosa succede quando uno scrittore si sente bloccato. Mi ci è voluto del tempo per capire che tutti quei testi costituivano un romanzo.

Qual è il rapporto tra scrittura e solitudine?

Scrivere (e leggere) è qualcosa che di solito facciamo in solitudine. Anche se siamo circondati da persone. Scrivere ci permette di isolarci, di andare in un “altro mondo”; l'immaginazione – e la parola – ci portano lì, in un altro luogo. Tuttavia, la solitudine della scrittura è sempre una solitudine cercata. È molto diversa dall’angoscia della solitudine imposta. Anche se è vero che, a volte, la scrittura salva, o almeno allevia, l’angoscia della solitudine non scelta.

La rappresentazione di un territorio sfugge alla comprensione dell’uomo?

Ci sono zone, paesaggi, che mi sembrano impossibili da esprimere a parole. Viaggiare attraverso la pianura, per esempio, camminare attraverso la campagna con il grande cielo che occupa l’intera visuale, è un’esperienza che mi sembra quasi impossibile da trasmettere. Eppure, è proprio qui che si trova il linguaggio: fare il massimo sforzo, affrontare la sfida di estendere al massimo i suoi limiti, per cercare di dire all’altro cosa si prova quando la pianura attraversa il corpo.

Dopo il Covid molti hanno pensato di tornare a una vita più lenta, come il suo protagonista dopo la fine di un amore.

La pandemia ci ha messo di fronte a un confino non scelto: ci ha circondato di malattia e di morte, di angoscia, di incertezza. Credo sia stato un momento in cui tutti noi, costretti a fermarci e ad abbandonare la nostra routine, abbiamo ripensato un po’ a quello che volevamo fare, a quello che volevamo cambiare nella nostra vita quotidiana. Di fronte alla morte onnipresente, si è presentata la possibilità di pensare a cosa fare del resto della nostra vita. Per quanto disperati siano stati quei mesi, credo che ci abbiano anche messo in contatto con i nostri veri desideri. Per alcuni, questi desideri hanno o avevano a che fare con il ritorno alla natura e con una vita più lenta. Per altri, invece, sono emersi desideri di cambiamenti di lavoro, abitazione, città, continente o addirittura di partner. Alcuni hanno anche sentito il bisogno di vivere una vita più accelerata, di viaggiare di più, di traboccare ed esplodere. Credo sia stato diverso per tutti. Così come erano – o sono diverse – per ciascuno le reali possibilità (economiche, familiari, lavorative) di fare quel salto e realizzare quei desideri.

Nel libro c’è una riflessione sull’arte. Ricorda alcuni scritti di Ben Lerner, ma anche di Knausgård: qual è il rapporto tra vita e forme d’arte?

Il rapporto tra le forme dell’arte e le forme della vita è sempre un rapporto complesso, teso, a volte conflittuale. L’arte, almeno, ha una cornice: c’è un limite, un ritaglio che dice che questo inizia qui e finisce qui: questo libro ha tante pagine, questo film dura tanti minuti, questo quadro è largo tanti centimetri e alto altrettanti. Questo ritaglio, questo limite, fa entrare in gioco il significato. Il limite impone un significato e apre la possibilità di una serie di scelte: cosa rimarrà dentro e cosa fuori da questo limite. Scelte che possono essere estetiche, ideologiche, di mercato. La vita, invece, manca di forma, il suo limite è impreciso e imprevedibile. Non sappiamo mai bene cosa ci sta succedendo, o cosa ci succederà nel prossimo secondo. La vita implica incertezza. Finché viviamo non sappiamo mai quale incontro o quale scelta faremo. Naturalmente, in entrambi gli ambiti, sia nell’arte che nella vita, ci sono tentativi di avvicinamento.

C’è anche una citazione di Corita Kent, in cui dice che uno degli scopi dell’arte è farci notare le cose che non notiamo.

È una citazione che mi piace molto, così come mi piace Corita Kent e il suo approccio all’arte e all’insegnamento dei processi creativi. L’arte ha, o potrebbe avere, se la consideriamo “funzionale”, mille scopi. Ma quella possibilità di dare nomi a cose a cui di solito non prestiamo attenzione, quella capacità di permetterci di soffermarci sui dettagli, di espandere il nostro mondo con un colpo di parola.

Nel libro ci sono diverse citazioni che accompagnano il narratore. È un antidoto alla solitudine? Come può esserlo la grande letteratura…

Leggere è sempre incontrare un altro. Un altro che ci parla quasi all’orecchio, un altro che è quasi una voce che ci sussurra nella testa. È questa la bellezza della lettura: il testo è un dispositivo capace di attraversare decenni, secoli, interi continenti, per regalarci un legame di grande intimità con qualcuno che ci racconta una storia, ci diverte, ci accompagna, ci fa dimenticare per un attimo la nostra realtà, la nostra angoscia, la nostra disperazione o la nostra nevrosi.

Ha letto Le pianure di Gerald Murnane (Safarà)? “A modo nostro – scrive Murnane – siamo tutti esploratori. Esplorare è più che dare un nome a qualcosa o descriverlo. Il compito di un esploratore è quello di ipotizzare l’esistenza di una terra al di là delle terre conosciute. Che trovi o meno quella terra e ne riporti notizia non è importante. Può scegliere di perdersi lì per sempre e aggiungere un’altra voce alla lista”.

Mi piace molto Murnane e per un po’ mi è pesato che il titolo del mio romanzo, tradotto in altre lingue, coincidesse con il suo (cosa che non accade in spagnolo). Murnane è uno scrittore del possibile, non tanto dell’esperienza in sé, come lui stesso dice, ma delle possibilità, forse anche irrealizzabili, ma non per questo meno praticabili, dell’esperienza. Personalmente, sebbene i suoi libri mi piacciano molto, mi manca quella capacità di essere soddisfatto o sollevato dalle possibilità del reale. Per me, piuttosto, l’esperienza mi opprime, mi problematizza. Voglio sempre che il reale si materializzi il più vicino possibile ai miei desideri. E accettare la frustrazione di questa impossibilità è un lavoro che occupa gran parte della mia vita quotidiana.

Le pianure mostrano e insieme nascondono nella distanza dell’orizzonte, come una sorta di iceberg narrativo.

Il mio desiderio è che diversi livelli di lettura siano possibili, che il testo trovi spessore nelle sue interlinee, nei suoi silenzi. Volevo generare un testo che si avvicinasse, almeno un po’, a un paesaggio complesso come quello della pampa argentina.


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