giovedì 1 febbraio 2018
Intervista all’attore 29enne che affronta da regista i versi di “L’illusion comique” di Corneille allo Stabile di Torino. «L’Italia dovrebbe avere fiducia in noi»
Fabrizio Falco in scena al Teatro Gobetti di Torino ne “L’illusion comique” di Corneille (Marina Alessi)

Fabrizio Falco in scena al Teatro Gobetti di Torino ne “L’illusion comique” di Corneille (Marina Alessi)

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«Corneille quando scrisse il suo capolavoro, L’illusion comique aveva 29 anni. Non vedo perché oggi non possa metterlo in scena un giovane regista». Fabrizio Falco ha oggi la stessa età del grande drammaturgo francese quando al Théâtre du Marais di Parigi fece debuttare nel 1635 L’illusione comica, altissimo esempio di teatro barocco, un meccanismo a incastro dove più scene si aprono fra realtà e illusione per svelare la magia del teatro. Ma anche una storia di padri e figli e generazioni che non si capiscono. Falco, nato a Messina, cresciuto a Palermo, diplomato all’Accademia Silvio D’Amico di Roma, è considerato uno dei giovani talenti più interessanti del panorama italiano. Vincitore nel 2012 del Premio Marcello Mastroianni come rivelazione al Festival di Venezia per i film di Daniele Ciprì e Marco Bellocchio e Premio Ubu nel 2015 come miglior attore Under 35, dopo aver ben figurato negli ultimi lavori di Luca Ronconi (da Il panico di Spregelbund alla Lehman Trilogy) e Carlo Cecchi, oggi l’attore punta al salto di qualità come regista. Già aveva convinto dirigendo se stesso in un alcuni monologhi fra cui un gioiellino come Galois di Paolo Giordano dedicato al grande matematico. Ora per la sua prima regia “complessa” si lancia a testa bassa, anche come protagonista, in un’opera in versi che fu una delle vette dello Strehler maturo, L’illusion comique sino al 4 febbraio al Teatro Gobetti di Torino.

Fabrizio, come ha convinto lo Stabile di Torino a produrre uno spettacolo così impegnativo?
«L’illusion comique è un testo che adoro e su cui avevo lavorato in Accademia. Ho convinto il presidente dello Stabile Lamberto Vallarino Gancia e il direttore esecutivo Filippo Fonsatti, che ringrazio per la fiducia, chiudendoli in una stanza e recitandoglielo tutto d’un fiato. Stavo cercando qualcosa che mi permettesse raccontare il rapporto col senso del teatro, ed è il primo di altri testi che vorrei fare. Parla di una dimensione non semplicemente estetica, ma della funzione etica che ha il teatro all’interno della società. Credo fortemente che in un periodo in cui il mondo va da tutt’altra parte, il teatro resti uno dei pochi luoghi in cui la gente si riunisce e si occupa di questioni che ci riguardano tutti: si rimette l’uomo al centro e non la dimensione virtuale. Credo fortemente che il teatro sia un’occasione di cittadinanza, che aiuti a dare senso all’essere nel mondo».

Al centro c’è un contrasto fra un padre duro e pentito alla ricerca del figlio ribelle.
«La relazione padre-figlio è indubbiamente centrale nel testo di Corneille. Ma poi si amplia a un orientamento della vita, fra chi sceglie la sicurezza e non ha un animo sensibile e chi invece ha un’idea della vita più legata alla fantasia e all’avventura. Non credo alla redenzione finale del padre Pridamante: lui non ha capito davvero il figlio e nel finale non riuscirà a incontrarlo».

Una visione un po’ sfiduciata verso gli adulti. Che rapporto ha avuto con i suoi genitori?

«Ho pensato molto a mio padre, scomparso da pochi anni, costruendo lo spettacolo. Io ho avuto tutt’altro esempio, i miei genitori, papà designer e mamma pro- fessoressa, mi hanno sempre sostenuto. Mi sono domandato cosa avrei provato di fronte a genitori che non mi avessero dato la possibilità di costruirmi».

Nella sua costruzione lei ha avuto anche dei maestri importanti come Ronconi.
«Sì a partire da Maurizio Spiguzza il mio maestro di teatro a Palermo da quando avevo 14 anni, e che oggi interpreta Geronte nello spettacolo. Ho osservato molto poi Cecchi e Ronconi, miei maestri anche in Accademia, due registi totalmente opposti di cui ho sempre cercato di capire i meccanismi. I fantastici movimenti di scena di Ronconi erano sempre frutto una lettura attenta del testo».

Ma c’è spazio per i giovani registi in Italia?
«C’è una percezione un po’ falsata in Italia, dove sei considerato giovane fino a 50 anni. Si pensa che si abbia diritto di fare cose complesse e difficili solo dopo una certa età. Ma lo stesso Strehler creò il Piccolo a 25 anni, e Galois e Leopardi, che ho portato in scena, erano dei giovani incompresi. Per carità, non mi posso paragonare a loro, ma nel mio piccolo, con le mie paure e i miei errori ci provo. Nel teatro inglese si dà spazio ai registi e agli autori trentenni che sono innovativi».

La nuova legge sul teatro però cerca di valorizzare gli attori under 35.
«Si tratta di un finto investimento sugli under 35, non c’è l’idea della crescita di una generazione. Si fa vedere che ci si occupa dei giovani, ma non c’è un vero investimento sul loro futuro. Si procura solo una manovalanza a basso costo, proliferano scuole di teatro, si fanno finti investimenti di comodo perché l’Italia è un Paese fermo».

Nuovi progetti per cinema e teatro? «Sono stato al Festival del cinema di Torino con il film Blue kids di Andrea Tagliaferri prodotto da Matteo Garrone. Una storia dura di un fratello e una sorella che uccidono il padre, ma vivono beati e tranquilli. Anche qui, il tema attuale del rapporto fra generazioni. A maggio invece sarò Polinice al Teatro Greco di Siracusa nell’Edipo a Colono con la regia di Yannis Kokkos e protagonista Massimo De Francovich».

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