lunedì 19 febbraio 2024
Al Castello di Rivoli in mostra i disegni inediti a soggetto religioso che mettono in una prospettiva metafisica e apocalittica il lavoro di uno dei più importanti artisti del secondo Novecento
Fabio Mauri, "Senza titolo" (1955)

Fabio Mauri, "Senza titolo" (1955) - Courtesy the Estate of Fabio Mauri e Hauser & Wirth

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Artista impossibile da qualificare nei troppi cassetti del secondo Novecento – il che, sia chiaro, è una virtù – Fabio Mauri (1926-2009) ha consegnato un’opera tanto poliedrica quanto compatta nel suo ancorarsi a una questione di rigore etico. Le performance (a partire dalla celebre Che cosa è il fascismo e Ebrea, entrambe del 1971), gli “schermi”, i collage, i dipinti, ma anche l’attività editoriale, di insegnante e di regista sono parti di un vasto “esperimento del mondo” che interroga la relazione tra bellezza, male, ideologia e potere, tenendo come filtro quello della responsabilità individuale. Il Castello di Rivoli fino al 24 marzo ospita Esperimenti nella verifica del Male, una mostra di 170 opere su carta, molte delle quali inedite, e alcune installazioni, oltre a diari e volumi della biblioteca di Mauri, che aprono una finestra importante sul suo lavoro: secondo la curatrice Carolyn Christov-Bakargiev, che da poco ha lasciato l’incarico di direttore del Castello di Rivoli a Francesco Manacorda, «questa mostra permette di approfondire le origini della sua opera che si manifesta come incredulità di fronte al perseverare del male nel mondo nonostante l’apparente progresso della modernità».

Se il percorso copre l’intera sua carriera, appaiono particolarmente significativi i disegni, pressoché sconosciuti, dell’immediato dopoguerra di soggetto quasi esclusivamente religioso, caratterizzati da un segno grafico espressionista e da un’immaginario che mescola icona bizantina e gotico. La scoperta dei campi di sterminio tedeschi causa in Mauri un trauma radicale che gli causa un forte senso di colpa che lo porta tra ospedali psichiatrici (dove si sottopone all’elettroshock) e monasteri. Passa lunghi periodi in completo silenzio e astinenza, trascrive passi dalle sacre scritture, studia manuali di teologia dogmatica, legge Ignazio di Loyola, Teresa d’Avila, Agostino, Tommaso d’Aquino e Pascal, conosce padre Turoldo. A partire dal 1952, quando sarà dichiarato guarito, il tema religioso si mescola a temi più laici fino a cessare una sua presenza pubblica: nei primi anni Ottanta realizza una serie di coloratissimi disegni sull’Apocalisse, che verranno esposti soltanto dopo la sua morte. A distanza di decenni in un’intervista alla stessa Christov-Bakargiev che gli chiedeva se fosse rimasto credente, diceva: «C’è uno iato in me fra oggi e l’allora. Sono più giansenista che cattolico. La continuità, forse, è proprio nell’arte. Testimonio a me che dovunque Dio c’è e testimonio a Dio che il mondo è pessimo come lui mi ha mostrato. Non credo al termine “laico”». E nella Nota autobiografica (2002) scriveva: «Il tema di fondo è che io sono ateo. Del mondo, voglio dire. Non di Dio, che è l’unico che vedo in giro».

I disegni religiosi, tanto quelli del dopoguerra quanto quelli di 30 anni dopo, mettono in prospettiva l’intera opera dell’artista. Le performance o le installazioni non appaiono soltanto come una riflessione sul male nella storia, ma acquistano una profondità metafisica. Non può essere un caso che dopo la Biennale del 1978 nel rieditare I numeri malefici (qui esposta, in concomitanza con l’ingresso nelle collezioni del museo), in cui una gigantografia di Goebbels che inaugura la mostra dell’arte degenerata si contrappone a una sequenza audio che comprende il suono di un terremoto e una lavagna con l’equazione della teoria degli errori, Mauri abbia sostituito lo strappo da un affresco di Giotto o Giottino con Lo sposalizio mistico di santa Caterina d’Alessandria, con la litografia dei Quattro cavalieri dell’Apocalisse di De Chirico. Per Christov-Bakar-giev «tutta la sua opera è in realtà una verifica dell’esistenza del male del mondo, un tentativo di venire a capo di questo mistero teologico e filosofico ». Quella di Mauri appare dunque come una vera e propria teodicea. Nel mettere al centro del suo lavoro questo interrogativo, nel tempo Mauri finisce per connettere filosofia, teologia e fisica, arrivando a proiettarsi al di là della storia stessa. La scritta “The end”, la fine, che attraversa il suo lavoro dagli anni 60 allude a un “tempo dopo il tempo”, post-apocalittico. La scritta “Il nulla non c’è” campeggia in un collage del 2007, ispirato alle teorie dei fratelli Bogdanov che vogliono un universo chiuso: «Sul niente – diceva Mauri sintetizzando spiritualità e scienza – non ci si può affacciare».

“Senza titolo”, 1949 Qui ai lati, due fogli della serie “Senza titolo Apocalisse”, 1983 / Courtesy the Estate of Fabio Mauri and Hauser & Wirth

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