sabato 2 giugno 2018
Da opera a libro, “Il canto della fabbrica” risuona con il grande maestro: «Oggi troppo spesso la musica viene banalizzata»
Un’immagine tratta dal libro “Il canto della fabbrica”, Mondadori (Bettmann / Getty Images)

Un’immagine tratta dal libro “Il canto della fabbrica”, Mondadori (Bettmann / Getty Images)

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Il silenzio del rumore / delle valvole a pressione / i cilindri del calore / serbatoi di produzione, cantava Franco Battiato quasi mezzo secolo fa nell’album Pollution. Ci aveva provato decenni prima, a interpretare quel mondo regolato dai “quattro colpi di sirena”, soprattutto Dmitrij Šostakovic nella sua Seconda Sinfonia chiamata a celebrare la rivoluzione d’ottobre e il sol dell’avvenire. Acciaio, rumore, fumo, fatica, catene di montaggio e produzione in serie sono ancora presenti, ma nell’era della robotica industriale e del terziario avanzato quei clangori evocati sembrano diventati persino “canto”. Un’evoluzione raccontata in un poderoso volume, con oltre 120 immagini e una raccolta di saggi: una riflessione attraverso la voce di intellettuali, musicisti e industriali su come sia possibile raccontare la fabbrica di oggi a partire proprio dalla musica. Il titolo del libro è quello del brano Il canto della fabbrica (eseguito in prima assoluta al polo industriale Pirelli di Settimo Torinese lo scorso settembre per il Festival Mito), commissionato dalla Fondazione Pirelli al compositore Francesco Fiore per il violino di Salvatore Accardo, dopo anni di un percorso sperimentale che ha portato a eseguire musica all’interno della Pirelli, rendendo pubbliche ai dipendenti le prove dell’Orchestra da camera italiana nell’auditorium degli Headquarters alla Bicocca di Milano.

Maestro Accardo, lei fu un pioniere della musica in fabbrica.

«La mia prima esperienza fu quella dei concerti nelle fabbriche organizzati negli anni Settanta dal Teatro alla Scala con Pollini, Abbado e altri, oltre ai concerti alla Scala per i lavoratori e gli studenti. Con quei concerti abbiamo formato un nuovo pubblico di persone che non avevano l’abitudine di andare ai concerti di classica. Facevamo anche programmi non facili, da Bartok a Beethoven, da Webern a Schoenberg. Eppure c’erano grande emozione e partecipazione. A conferma che la musica arriva. Purtroppo oggi viene troppo spesso banalizzata».

A cosa si riferisce?

«Non certo al cosiddetto rumore. A darmi fastidio è invece la grande musica trattata come sottofondo. Si sente dappertutto, ma è solo distrazione ed è sempre più diffusa, in ascensore, al bagno, al ristorante. È solo volgare banalizzazione della musica. La cosa peggiore è che vengono persino realizzati appositi arrangiamenti: capolavori ridotti scientemente a sottofondo. Penso a quanto faccia male tutto ciò ai bambini».

Quale sarebbe il rischio per i più piccoli? In fondo il loro è un approccio ludico.

«Peggio, fa loro percepire la musica come qualcosa di banale, di non importante. Per loro natura i bambini ascoltano la musica come qualcosa di primordiale. Io ho due gemelle, Ines e Irene, che hanno quasi dieci anni e, con entrambi i genitori violinisti, hanno hanno ascoltato musica già prima di nascere. Ricordo che quando mia moglie era incinta stavamo studiando un Quartetto di Janácek. Quando le bambine avevano pochi mesi e stavamo provandolo ancora, abbiamo notato che erano attratte in modo particolare da questa musica perché la riconoscevano. Ma soprattutto non dimenticherò mai una sera quando stavo guardando Il flauto magico di Ingmar Bergman in tv. A un certo momento una delle due bambine si è messa a piangere a dirotto: Mozart. La sua musica suscita speciali vibrazione dentro di noi. I bambini avvertono tutto ciò in modo naturale e puro perché sono ancora incontaminati. Le varie ossessive suonerie non hanno ancora avuto modo di fare danni. Ma per poco, purtroppo».

Sono già musiciste anche le sue figliole?

«Sì, da una parte in me c’è gioia ma dall’altra anche preoccupazione perché è un percorso difficile. Un salto nel buio. Per fortuna non hanno preso la strada del violino, ma quella del pianoforte. Soprattutto Irene mostra già un certo talento e ha già fatto i suoi primi concerti. In questi mesi ha suonato al festival pianistico “Benedetti Michelangeli” di Brescia e Bergamo e a Piano City, a Milano. La loro insegnante è Maria Grazia Bellocchio, mia collaboratrice ai corsi di musica a Cremona».

La sua città ideale, d’adozione...

«Ho la cittadinanza onoraria, Cremona è d’obbligo per noi strumentisti ad arco. La scuola di perfezionamento “Accademia Stauffer” non poteva che nascere lì. A Cremona ci sono moltissimi bravi liutai italiani e stranieri, ma uno stumemto costruito oggi, anche se fatto a regola d’arte, ha bisogno di 60-70 anni di maturazione per esprimere tutte le sue potenzialità. Il modo migliore è suonarlo tanto e possibilmente bene. Se un violino è suonato male, poi ci vuole un sacco di tempo per riportarlo a suonare come si deve. A me è capitato qualcosa che ha davvero dell’incredibile».

Che cosa le è successo?

«A un certo punto della mia carriera riuscii ad acquistare uno Stradivari che era appartenuto a un grandissimo violinista, Zino Francescatti. Lo usò per 45 anni e quando io l’ho suonato per la prima volta mi sembrava che suonasse da solo. Ma il fatto straordinario mi capitò al primo concerto che feci con questo Stradivari alla Carnagie Hall di New York. Finito di suonare, mi si avvicinò un anziano signore del pubblico e mi disse: “Sono sicuro che il suo violinista preferito è Zino Francescatti”. Aveva sentito il suo stesso timbro e il colore, anche se a suonare ero io. Certo, si trattava di un ascoltatore sopraffino. Il contrario degli ascoltatori di oggi, soprattutto giovani. Ma non è colpa loro».

Troppa omologazione musicale?

«Un pericolo è certamente questo. Se si ascolta solo un certo tipo di musica bombardata nelle radio e in Rete, è chiaro che sia difficile scegliere. I bombardamenti non lasciano margine. Allora bisogna dare soprattutto ai giovani la possibilità di scegliere, ma per questo si deve avere un minimo di conoscenza. Altrimenti non si può che seguire l’onda e la moda. È necessario conoscere per scegliere. E qui il tassello fondamentale è l’educazione musicale nelle scuole. Tutto nasce a scuola, è lì che bisogna fare di più».

La sua ricetta quale sarebbe?

«La musica va messa al pari delle altre discipline. Sia come storia della musica, sia facendola ascoltare e sia facendo imparare uno strumento. In altri Paesi nelle scuole nascono addirittura delle orchestre, dalle primarie alle università. Io negli Stati Uniti ho suonato con orchestre delle facoltà di ingegneria e di medicina. Invece da noi all’educazione musicale le prime a non crederci sono proprio le istituzioni. Così ci ritroviamo giovani ignoranti che non hanno strumenti per capire e scegliere la musica. E la strada giusta. Ho incontrato centinaia di giovani che facevano musica, soprattutto classica, e non mi è mai capitato di trovare un caso di tossicodipendenza. La musica ti dà talmente tanto che non hai bisogno di fughe».

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