venerdì 8 giugno 2012
Polonia-Grecia apre oggi i Campionati. La nazione con la crescita economica più alta contro quella più disastrata. L’ex idolo Tomasewski: «Non tifo per la mia Nazionale piena di stranieri che non conoscono neppure il nostro inno».
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Anche la nostalgia è una forma di bellezza, fa dire Paolo Sorrentino al suo Tony Pagoda. È la stessa cosa che viene da pensare assistendo alla scena di un padre e un figlio che tiene in mano la bandiera polacca, davanti allo stadio Narodowy di Varsavia: restano immobili, estasiati, scattano foto ammirando l’imponente statua in bronzo che omaggia l’eroe nazionale (specie per chi tifa Legia) del calcio, Kazymierz Deyna. Sì proprio quel ragazzo dalla chioma fluente, la faccia da Pulici, che ai Mondiali del ’74 trafisse Zoff con una sventola da fuori area, fece piangere l’Italia (2-1 a Stoccarda) e vergare a uno stizzito Gianni Brera: «Il mio cuore è gerbido. Non ho neppure la forza di indignarmi…». Quella Polonia, alla faccia della tradizionale spocchia italica pallonara, era stata capace di vincere l’oro olimpico nella terroristica Monaco ’72 grazie alle parate dell’eccentrico portiere Jan Tomasewski e alle discese ardite del “cavallo pazzo” Grzegorz Lato. Quarant’anni dopo, oltre a un passato da senatore, Lato vanta un presente da n.1 della federcalcio polacca, ma il primo dei suoi nemici è diventato il suo ex guardiano di porta, Tomasewski, deputato del partito dei conservatori che in questi giorni ha messo in imbarazzo persino il presidente della Repubblica Komorowski. «Non farò il tifo per questa Polonia piena di francesi e tedeschi, che non conoscono neppure il nostro inno nazionale. E dico a tutti di seguire il mio esempio», ha sbottato il vecchio Jan.Una dichiarazione di guerra alla vigilia del debutto di Euro 2012 contro una Grecia in pieno sfascio economico che prova a distrarsi con il calcio, dimenticando almeno per 90 minuti di essere il fanalino di coda. O come vuole la signora Merkel, la «pecora nera d’Europa». Il furente Tomasewski non è però il solo a ripudiare la Reprezentacja, la selezione, del ct Franciszek Smuda, infarcita come non mai di oriundi di ritorno. Dalla Francia arrivano il difensore Perquis e il trequartista Obraniak e dalla Germania, dove si sono trasferiti in fasce, il difensore Boenisch e i due centrocampisti Matuszczyk e Polanski. La frangia estrema della tifoseria polacca, e non solo, fa fatica ad accettare le giustificazioni di questi “ricchi ragazzi del calcio” che non sanno una parola della Mazurka di Dabrowski (il loro inno). Si aggrappano alla speranza Lewandowski, il 23enne “Beckham di Polonia” (fidanzato con la campionessa di karate Anna Stachurska) che da ex brutto anatroccolo scartato dal Legia Varsavia, ora è diventato uno dei punti di forza dei campioni di Germania del Borussia Dortmund. Uno dei sette polacchi che milita nella Bundesliga, dove sono diventate delle star i due figli della Slesia, Podolski e il laziale Klose. I giovani si mordono ancora le mani per la perdita di questi due gioielli che hanno scelto la nazionale tedesca, i vecchi come Tomasewski invece preferiscono rimanere, con la memoria e con il cuore, ostaggio di quella Polonia terza al Mondiale del ’74. Quella del monumentale Deyna, morto 41enne sulle strade della California, ormai triste e solitaria riserva di una squadra di soccer a San Diego. A tradirlo, come tutta la sua generazione, è stata la nostalgia e soprattutto il troppo attaccamento alla bottiglia. Ma se provate ad entrare in una qualsiasi barsport di Varsavia, non c’è polacco adulto che non vi dica: «Voi italiani pensate che Boniek sia stato il nostro miglior giocatore e invece è solo il quinto: prima viene Deyna, poi Deyna, Deyna e ancora Deyna...». Un Deyna questa Polonia non ce l’ha e con l’abbandono criminale dei settori giovanili avvenuto in questi ultimi anni (nonostante l’Under 17, piena di oriundi sia arrivata terza agli ultimi Europei) c’è chi comincia a rimpiangere gli anni del comunismo, «quando non si stava meglio, ma almeno la nostra Nazionale era tra le più rispettate del mondo». Ma così la nostalgia diventa una forma di masochismo che contagia anche i pochi tifosi greci arrivati fin qui con il sogno di rivedere la loro squadra trionfare, come agli Europei del 2004. «Passare il turno sì, ma né noi, né loro potremmo farcela a vincere l’Europeo», sentenzia serafico il professor Stefan Bielanski dell’Università di Cracovia. «È bella una tale certezza, ma l’incertezza è più bella», scrive il premio Nobel per la poesia Wislava Szymborska.
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