martedì 8 dicembre 2020
Fra gli effetti non secondari della pandemia c’è l’impossibilità di sottrarci a una riflessione sul nostro rapporto personale con il tempo. Da Lewis a Rosini
Eternità e presente: l'uomo non divida ciò che Dio unisce

Solinas

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Fra gli effetti non secondari della pandemia c’è l’impossibilità di sottrarci a una riflessione sul nostro rapporto personale con il tempo, sul quale, almeno fino allo scorso marzo, credevamo di esercitare un controllo completo, come esercizio estremo della libertà individuale. Lo abbiamo inizialmente chiamato “tempo sospeso”, perché segnato dal timore del contagio e impazientemente vissuto “in attesa di”, in bilico fra il totale smarrimento e la speranza. Poi c’è stata la stagione delle follie estive autorizzate, quella – si pensava – del “tempo ritrovato”, al grido di “riprendiamoci tutto!”. Ora, invece, mentre si continua a gettare acqua sul fuoco giallo arancione e rosso della seconda ondata, l’anno volge al termine, consegnandoci il gravoso compito dei bilanci. Quindi con insofferenza, ma senza scomodare ancora Proust, finiamo per parlare apertamente di “tempo perduto”. E mentre la situazione ci grida violentemente in faccia che no, il tempo non è un nostro possesso e a voler essere onesti non lo è mai stato, è facile abbandonarsi alla frustrazione di sentirsi schiacciati in un presente cui i nostri desideri non hanno potuto dar forma. Restano due possibilità: la riflessione sul passato – che può essere l’occasione per fare esperienza della gratitudine o per lasciarci immobilizzare nelle paludi di una sterile nostalgia – o la fuga in un futuro non immediato, possibilmente migliore del presente.

Giunge in nostro soccorso un grande classico, uno di quelli che vale la pena di rispolverare in questo lungo e insolito autunno-inverno: Le lettere di Berlicche di C. S. Lewis. Com’è noto, si tratta di un romanzo epistolare che raccoglie le lettere del diavolo Berlicche a suo nipote Malacoda, apprendista nell’arte della tentazione e pertanto ancora bisognoso di indicazioni da parte dello zio. Il tutto da leggere in maniera speculare, perché scritto secondo la prospettiva “diabolica” per cui il Nemico è Dio, le virtù danno filo da torcere e i vizi sono motivo di compiacimento. Nella quindicesima lettera, Berlicche affronta una questione piuttosto spinosa. Le circostanze storiche sono significative: siamo nel bel mezzo della seconda guerra mondiale e un periodo di stasi nel conflitto fa sì che il “paziente” (l’uomo che deve essere tentato da Malacoda) viva un momento di tregua dalle preoccupazioni. Bisogna incoraggiarlo nella sua tranquillità o spingerlo nuovamente a preoccuparsi? Per rispondere a questo quesito, Berlicche elargisce una memorabile lezione sul tempo, l’uomo e Dio: «Gli esseri umani vivono nel tempo, ma il nostro Nemico li destina all'eternità. Perciò, credo, Egli desidera che essi si occupino principalmente di due cose: della eternità stessa, e di quel punto del tempo che essi chiamano il presente. Il presente è infatti il punto nel quale il tempo tocca l'eternità. Del momento presente, e soltanto di esso, gli esseri umani hanno un’esperienza analoga all’esperienza che il nostro Nemico ha della realtà intera; soltanto in esso viene loro offerta la libertà e la realtà. Egli vorrebbe perciò che essi fossero continuamente occupati o con l'eternità (il che vuol dire essere occupati di Lui) o con il presente o che meditino sulla loro eterna unione con Lui, o sulla separazione da Lui, oppure che obbediscano alla voce presente della coscienza, portando la croce presente, ricevendo la grazia presente, offrendo azioni di grazie per il piacere presente».

Concetti su cui è bene soffermarsi. L’uomo creato per il presente e per l’eternità, il presente come tempo per un’esperienza della realtà intera – e cosa offre la tentazione, se non un’ingannevole visione parziale? – come tempo della croce, della grazia e della gratitudine. Tutto insieme. Prendere o lasciare. Quale strategia allontanerà l’uomo da questa opportunità di vivere nella verità e nella pienezza? Berlicche è categorico: «il nostro lavoro è di allontanarli sia dall’eterno sia dal presente. A questo fine tentiamo un essere umano (una vedova, ad esempio, o uno studioso) a vivere nel passato» ma questa strategia, avvertirà, è valida fino a un certo punto, perché anche il passato, per certi aspetti, somiglia all’eternità. Molto meglio usare il futuro, verso il quale sono normalmente rivolte le passioni dell’uomo «cosicché il pensiero del futuro infiamma la speranza e il timore». E, aggiungiamo, in simili pensieri, privi di un legame vitale con la realtà, l’uomo consuma, sperpera, “ammazza” il suo tempo. Lewis però, col pretesto di lasciare che Berlicche chiarisca a Malacoda un aspetto del futuro che si rivela insidioso per i loro diabolici piani, ci consegna il segreto di un sano rapporto col tempo. Non si serve forse anche Dio del futuro? Gli uomini non pianificano forse oggi gli atti di giustizia e di carità che auspicano di compiere domani?

«Il dovere di stabilire i piani del lavoro di domani è un dovere di oggi; benché il suo materiale sia preso a prestito dal futuro, il dovere, come ogni dovere, è nel presente. Questo non è spaccare un capello in quattro. Egli [Dio] non vuole che gli uomini diano il loro cuore al futuro, che ripongano in esso il loro tesoro. Noi sì. Il Suo ideale è un uomo che, avendo lavorato tutto il giorno per il bene della posterità (se tale è la sua vocazione), si libera la mente da ogni pensiero di quel lavoro, lascia le conseguenze al Cielo, e ritorna senza indugio alla pazienza e alla gratitudine che il momento che passa su di lui gli richiede. Noi invece vogliamo un uomo che sia stregato dal futuro [...] dipendente per la sua fede dal successo o dal fallimento di schemi dei quali non vivrà fino a vedere la fine. Noi vogliamo tutta una razza che persegua perpetuamente la fine dell'arcobaleno, non mai onesta, non mai gentile, né felice ora, ma che usi continuamente come pura esca da collocare sull'altare del futuro ogni vero dono che le viene offerto nel presente». Rileggere con calma, più di una volta. Non si tratta un invito alla passività o al fatalismo. Il segreto del rapporto col tempo è la libertà. E non c’è libertà senza fiducia, senza affidamento. Vivere solo “in attesa di”, schivando la pienezza che ci è promessa anche oggi oltre il muro prefabbricato delle nostre aspettative, significa rendersi complici di un piano diabolico che punta alla nostra infelicità.

Concludiamo aggiungendo che queste celebri pagine di Lewis sono evidentemente care, fra gli altri, anche a don Fabio Rosini, che nel suo L’arte di ricominciare – testo che nasce proprio come riflessione su un tempo specifico (i sei giorni della Creazione) e i suoi doni – le cita, rincarando la dose: «Il nemico [...] fomenta pensieri distruttivi o sposta l’attenzione dal bene reale al bene ipotetico, e comunque opprime il bene possibile, lanciando nel pindarico. E così uno pensa alla casa in cui abiterà e non abita la presente. Lo Spirito Santo cova il presente, anche se caotico, come grembo del bene. Con lo Spirito Santo si guarda alla potenzialità delle cose e le si valorizza, con il maligno o ci si ossessiona su una idea e non sulla realtà, o, più spesso, si tende a buttare via tutto». Una lettura, anche questa, che sin dal titolo rivela di essere altrettanto preziosa per queste settimane che rischiano di essere segnate esclusivamente dalla preoccupazione per l’impatto delle nuove restrizioni sul cenone. E pur sempre tempo di Avvento, il momento dell’anno che marca l’unica attesa capace di far coincidere realmente presente ed eterno. Non resta che vegliare, dunque, perché non sia un tempo “perduto” nella distrazione e nella fuga, ma un tempo “fecondo”, un tempo propizio per ricominciare, ripartendo come sempre, per citare Rosini – evidentemente a suo agio nel solco già scavato da Lewis –, dai «doveri di stato», dalla nostra umile missione quotidiana nel lavoro e negli affetti, da ciò a cui riconosciamo di essere chiamati oggi se rimaniamo in ascolto della Verità.

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