martedì 2 giugno 2015
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Il punto di partenza del racconto è una storia vera, occasione di riflessione su miti, riti e contraddizioni di un mondo ancestrale, dove tradizioni e rituali si tramandano immutabili di madre in figlia. E dove la perfetta simbiosi tra esseri umani e natura si scontra con una visione del mondo totalmente antitetica e incompatibile con le credenze di una realtà che sta scomparendo. Vulcano  dell’esordiente Jayro Bustamante, una vera scoperta all’ultimo Festival di Berlino dove ha ricevuto il Premio “Alfred Bauer” per le innovazioni del linguaggio cinematografico, racconta infatti di Maria, una diciassettenne maya che vive e lavora in una piantagione di caffè alle pendici di un vulcano attivo in Guatemala. Sogna di andare in città, ma il suo destino sembra segnato dal matrimonio combinato con Ignacio, il supervisore della piantagione. Pepe invece vuole raggiungere gli Stati Uniti e Maria lo seduce per fuggire insieme a lui. Ma dopo tante promesse e incontri clandestini il giovane se ne va senza la ragazza, che resta tra le montagne in attesa di un figlio. Il morso di un serpente sarà l’occasione per incontrare quel mondo moderno tanto agognato, ma il prezzo da pagare sarà altissimo. Il film, del quale non vogliamo svelare completamente il finale, da giovedì nelle sale distribuito da Pathenos, punta il dito contro il traffico di minori che ha colpito le comunità guatemalteche sugli altipiani, dove il rapimento di bambini (circa 400 all’anno, secondo le stime dell’Onu) non è un segreto. Il Guatemala si è così guadagnato il triste primato di principale paese “esportatore” di bambini nel mondo. Un’agghiacciante realtà che il regista ha scoperto molti anni fa, su un territorio a lui molto familiare, quello più volte attraversato insieme alla madre che, impegnata a convincere le donne maya a vaccinare i propri figli contro la polio, aveva scoperto il coinvolgimento di alcuni funzionari sanitari pubblici nel sequestro di bambini.Il regista, capace di dare forza, verità e spessore alle immagini senza far ricorso a un approccio documentaristico, costruisce il proprio racconto poco a poco, immergendoci lentamente nella pacifica vita quotidiana di una famiglia attraverso i suoi gesti, le sue tradizioni, la sua lingua, mostrando il profondo legame di quelle popolazioni con il vulcano locale, simbolo di una forza pronta ad esplodere. Un processo di avvicinamento a quel mondo per noi misterioso ottenuto anche grazie a un metodo di lavoro che il regista, influenzato soprattutto dal cinema dell’americano Terrence Malick e dell’austriaco Michael Haneke, ha così raccontato: «Ho organizzato dei laboratori all’interno delle comunità maya per far sì che le persone si confrontassero sui problemi sociali e sulle esperienze che li riguardano da vicino. La struttura narrativa del film parte proprio dalle storie che ho ascoltato, una in particolare, quella della vera Maria, una donna indifesa, costretta a vivere un grande dolore, ma dotata di una speciale saggezza che le ha consentito di andare avanti senza cedere alla disperazione. La sua storia non poteva non essere raccontata, lei ha accettato di condividerla perché il suo destino è quello di molte altre donne. Durante questi incontri ho anche insegnato ai membri delle comunità a diventare attori per il mio film. Ma non tutti hanno accettato di farne parte, così ho cominciato un vero e proprio casting e in questo modo ho trovato Maria Telon, che interpreta la madre di Maria, una donna molto attiva nel teatro di strada e nella difesa dei diritti delle donne».Il dramma del traffico dei minori, che conta sulla complicità di notai, giudici, medici e direttori di orfanatrofi, è affrontato dal punto di vista di una madre immersa in un ambiente lontanissimo da quello che noi consideriamo “la civiltà”. «Raccontare la storia di Maria – continua Bustamante – mi ha consentito di accendere i riflettori su tante altre donne indigene, sulla vita della loro comunità, della loro famiglia. Donne vittime impotenti di abusi e ingiustizie, ma ricche di grande dignità e coraggio, pronte a rimettersi in piedi e lottare per avere il controllo della propria vita». Sullo sfondo, un paese dall’identità distrutta. «Le ragioni storiche di questa disintegrazione sono molteplici, i guatemaltechi trovano sia troppo difficile essere se stessi e sognano di essere qualcun altro, aspirano a un altrove che è sempre coinciso con gli Stati Uniti, dai quali sono culturalmente influenzati. Pensate che a soli 20 minuti dai luoghi del film sorge un McDonald!».
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