La scrittrice Michela Murgia - Ansa
Se ne va un figlio perché è cresciuto, se ne va un ricordo impregnando di sé una qualche suppellettile, se ne va una speranza, se ne va qualcuno e la sua dipartita è una scia intrisa di cenere e disillusione. Ciascuno dei dodici racconti del libro Tre ciotole di Michela Murgia (Mondadori, pagine 138, euro 18,00) descrive un commiato: da una persona, da una condizione, da un ruolo, dalla stessa vita. Come fossero apologhi, ciascuna di queste storie brevi comunica il proprio piccolo insegnamento con esattezza e malinconia. Esattezza, perché i dodici frangenti sono concepiti e riportati con precisione. Malinconia, perché permane, in ognuna delle dodici storie, una fatica di riconoscere la realtà e prima ancora, di guardarla e assumerla. Quella fatica di accettare sta imbastita nell’ordito delle stesse nostre esistenze tutte, Murgia sembra insinuare tra le righe della sua calibrata prosa, e i suoi racconti del grande peso del dover far fronte anche dicono. «La memoria, non l’amore è la trappola»: ed ecco nel ricordare che nostro malgrado assedia le nostre vite si assemblano, quasi giustapponendosi, la paura di vivere e quella di morire, spinte ugualmente forti e in modo diverso premonitrici.
Come in un prisma di caleidoscopio, i punti di vista in ogni storia mutano, spostandosi e muovendosi secondo movimenti e scarti repentini, inattesi, come repentini e fulminanti sono i finali dei racconti così da raccordarsi gli uni agli altri, quasi Sherazade novello Pollicino dovesse puntellare di pietre il terreno per orientarsi nel bosco del narrare. La protagonista del primo racconto, quella che ricevuta la diagnosi di neoplasia su un rene vive una lunga fase di rigetto del cibo sino a trovare la soluzione delle “tre ciotole” (ai futuri lettori saperne di più) è la stessa donna evocata nell’ultima storia, lei non più viva, attraverso la descrizione die vestiti che furono i suoi. Vita e suo ricordo, malattia e sua ricognizione o negazione, tutto converge verso la fatica di guardare. Un padre la cui figlia si fa dei tagli alle braccia nasconde il fatto alla madre della migliore amica della ragazza, coinvolta in stesso dramma. Un’allenatrice di palla a mano finisce un’azione violenta su un topo già incominciata da dei ragazzini. Una donna malata di cancro ricorda un amore sbagliato, e il disgusto che quel ricordo le procura geometricamente si riflette sulla sua angoscia. La menzogna dell’adulterio fa da specchio ad altre bugie che costellano ogni esistenza, e nel rifletterle le scioglie, come accade quando scrivere lambisce la speranza di vivere ed elargire vita, quando si misura con paure molto più oscure e profonde, compresa quella di dipartire dal mondo.
C’è qualcosa di dolorosamente geometrico nello sguardo di Michela Murgia, e il suo Tre ciotole conta la virtù di un punto di vista impietoso e insieme molto umano nei riguardi dei suoi personaggi. Il risultato è una leggerezza nel senso più calviniano della parola, una scrittura vicina all’esistenza, al suo gonfio fluire e accadere, nella consapevolezza delle trappole che di continuo la vita sa tenderci, delle fughe e le bugie che costellano la sua geometria prestabilita, così da rafforzarne la struttura, e insieme in modo tale da sfocarne le figure. Perdono di senso le verità rifuggite, quando l’architettura è forte: si fanno grottesche, o ininfluenti, o sfocate. Nella poesia di Rilke “Orfeo, Euridice Hermes”, quando quest’ultimo sconsolato annuncia a Euridice che Orfeo purtroppo si è voltato, ogni salvezza è dunque spenta, lei già non si sovviene più di chi si tratti. «Ormai era radice», Rilke canta di lei. Nella mente, leggendo Tre ciotole, risuonano quei versi. Storie immaginate e viste con sguardo roccioso e sin troppo sapiente, volto ad altro.