sabato 26 gennaio 2013
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Uno le guarda, che danzano, che sorridono, che festeggia­no, che sollevano in alto le in­segne di un tennis particolare, co­struito sull’amicizia, sulla forza co­mune, sulle ore trascorse assieme, in campo, in allenamento, in viaggio. E il pensiero non va alla loro ennesima vittoria, che è bella come le altre, ma era forse più attesa delle altre, più ov­via. Piuttosto al fatto che due ragaz­zine italiane possano permettersi di dire, a questo punto della loro carrie­ra, ciò che nessuno mai in Italia ha pensato fosse possibile, nemmeno i Grandi che poi grandi lo sono stati per davvero: «Ci manca solo Wimbledon e poi abbiamo conquistato il Grand Slam del tennis». Sì, d’accordo, non sarebbe il vero e proprio Grande Slam, che ha precisi confini spazio-temporali e deve pren­dere forma nell’arco di una stagione, ma un qualcosa che mol­to gli si avvicina, e al qua­le hanno attribuito un nome ufficiale per acco­munare e non scontenta­re i pochissimi che lo hanno centrato.Lo chia­mano il “Career Grand Slam”, e annuncia al mondo la vittoria nelle quattro prove massime del tennis, ottenute nell’ar­co di una carriera. Il Grand Slam vuol dire dominio assoluto. Il Career Grand Slam significa invece vincere a lungo. Come stanno facendo loro due, Sara Errani e Roberta Vinci, sempre più nu­mero uno della specialità di coppia, vittoriose stavolta agli Australian O­pen, dopo aver conquistato Parigi e Us Open un anno fa. Quattro finali (la prima a Melbourne un anno fa) e tre vittorie. Quando lo centrò, non sapendo come definirlo, Serena Williams lo ribattezzò il “Sere­na Slam”. Poi vennero il Rafa Slam e il Fed Slam. Oggi, due ragazze italiane hanno a portata di racchetta il “Cichi Slam”, dal loro soprannome, le Cichi, che significa nulla e tutto, perché in quel nomignolo, c’è scritta per intero la storia della loro amicizia.«Cichi sa darmi una mano», «Se Cichi scende, io salgo, ci compensiamo», «A Wim­bledon vogliamo essere protagoniste, ovvio. Ma non dobbiamo farne una malattia, vero Cichi?»... Sara e Roberta si allenano anche quando vanno a comprare qualco­sa assieme, nella parigina Rue de Ri­voli o sulla Sesta Avenue a New York, intorno al Circus londinese di Pic­cadilly o lungo la Elisabeth Street nel cuore di Melbourne. È l’abitudine a condividere pensieri e parole che le rafforza. Eppure dicono in tanti che l’amicizia non sia così necessaria al tennis. E aggiungono esempi, mai smentiti, di doppi vincenti nati nel più fragoroso disaccordo. Gente che non si salutava nemmeno all’in­gresso sul campo, poi alzava la cop­pa assieme. Ma l’amicizia delle due azzurre è di un tipo estremamente favorevole ai connubi sportivi: è a­micizia solidale, di quelle che sanno andare oltre la già difficile arte del comprendersi. Le due non rinunciamo mai a darsi u­na mano, e questo le ha portata a cre­scere insieme, a migliorare le debo-­lezze, a far diventare Roberta più ac­corta e Sara più aggressiva, e ad ave­re, le due, sempre motivazioni altis­sime, perché nessuna vorrebbe mai essere d’impaccio all’altra. Così, la pessima spedizione italiana nella Terra a Testa in Giù, Down Un­der, la chiamano così l’Australia, co­minciata con 9 eliminazioni su 11 in singolare al primo turno, si chiude con la vittoria di Sara e Roberta in doppio, sulle australiane Barty e Del­lacqua ), 6-2, 3-6, 6-2. «Un match più difficile del previsto… Non come quello contro le Williams, ma pieno di insidie, e contro due tenniste di ca­sa ». Curioso: in campo c’erano tre i­taliane (la Dellacqua è di chiare ori­gini paesane), mentre due giorni fa un altro doppio azzurro, questa volta al maschile (Bolelli e Fognini) ha rag­giunto la semifinale. Sarà che gli ita­liani da individualisti si stiano tra­sformando in doppisti?
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