domenica 12 marzo 2023
Il tema della perdita di una persona cara è divenuto centrale nella riflessione a livello globale, come testimoniano due libri di Recalcati e uno dell’americana Devine
Edvard Munch, "La bambina e la morte", 1899, particolare

Edvard Munch, "La bambina e la morte", 1899, particolare - WikiCommons

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Tre anni fa erano le bare trasportate dai camion militari a Bergamo, negli ultimi giorni sono stati i funerali negati ai migranti naufragati a Cutro. Di quello che c’è stato nel mezzo, come di quello che è venuto prima e che verrà dopo, non sappiamo abbastanza, ma un fatto è certo: nel mondo in cui tutto deve essere immediatamente accessibile, il lutto è una delle esperienze più difficili da vivere. Perché non è pensata come un’esperienza da vivere, appunto, ma come un incidente da superare in fretta, secondo una logica dell’efficienza che non si ferma davanti a nulla, neppure davanti al dolore di chi ha perduto una persona cara. Quello che sporadicamente affiora è un arcipelago di sofferenze che non trovano ascolto oppure, quando sembrano trovarlo, vengono tacitate da un meccanismo molto simile a quello che nella Scrittura viene imputato agli amici di Giobbe. I quali non fanno propria la sofferenza dello sventurato, ma cercano di soffocarla sotto una pioggia di argomentazioni tanto insistenti quanto inani.

Oggi come oggi, più prosaicamente, occorre guardarsi dalla trappola del supermercato, che la statunitense Megan Devine descrive con schiettezza in Va bene essere tristi (traduzione di Alessandra Sora, Mondadori, pagine 276, euro 20, in libreria dal 14 marzo). Nel tempo del lutto, sostiene l’autrice, avventurarsi tra gli scaffali del negozio sotto casa espone a una forma di vacuo compatimento che può risultare insostenibile. Motivo per cui, aggiunge, si finisce spesso per andare a fare la spesa il più lontano possibile e magari addirittura a rinunciarci del tutto, arrendendosi al sentimento di inene luttabilità che fatalmente deriva dal dramma della perdita.

Pubblicato originariamente nel 2017, il libro è molto diverso dai numerosi manuali di auto-aiuto che invitano a considerare il lutto come un malessere transitorio, dal quale guarire per tornare a comportarsi in modo socialmente accettabile. È un genere di letture che la stessa Devine conosce bene anche per via della sua professione di psicoterapeuta, ma che si sono rivelate di scarsissima utilità – se non addirittura offensive – quando la donna ha dovuto a misurarsi con la morte improvvisa del compagno Matt, annegato non ancora quarantenne nell’estate del 2009. Da allora Devine ha intrapreso un cammino di consapevolezza individuale che le ha permesso di mettere a punto un percorso di appropriazione del lutto incentrato sulla scrittura e, più in generale, sul ricorso al linguaggio artistico-narrativo (fortemente raccomandato, in particolare, lo strumento espressivo del graphic novel).

L’assunto è comprensibile fin da titolo: Va bene essere tristi significa che a essere sbagliato non è il lutto, ma il pensiero unico della performance, che pretende di ricondurre ogni aspetto dell’esistenza umana alle regole della competizione permanente. Eccellere nello studio, nel lavoro o nello sport non è sufficiente, bisogna mostrarsi all’altezza anche davanti al dolore. Bisogna sbarazzarsene, senza nemmeno concedersi il tempo di viverlo. Ricco di spunti specie sotto il profilo delle pratiche quotidiane (quello del supermercato non è il solo esempio illuminante), il libro di Devine risente senza dubbio del contesto di provenienza, ma sarebbe ingenuo sostenere che questa impostazione “americanista” dell’esistenza non goda ormai di diffusione globale.

Per affrancarsene occorre ritornare alle radici dell’esperienza umana, come propone di fare Massimo Recalcati in La luce delle stelle morte (Feltrinelli, pagine 144, euro 16), densa ricognizione su lutto e nostalgia che sarebbe opportuno leggere di pari passo con un altro libro recente dello stesso Recalcati, Il trauma del fuoco (Marsilio, pagine 160, euro 15), nel quale viene messo a tema il rapporto tra vita e morte nella ricerca di Claudio Parmiggiani. In un certo senso, infatti, Il trauma del fuoco è già contenuto in nuce nel brano di La luce delle stelle morte in cui Recalcati analizza una delle opere dell’artista emiliano, A lume spento, raffigurazione struggente dei sentimenti contraddittori suscitati dalla perdita.

Come sempre, l’orizzonte lungo il quale si muove Recalcati è prevalentemente ma non esclusivamente psicoanalitico. Il richiamo ai testi fondativi di Sigmund Freud (a partire dal cruciale Lutto e melanconia del 1917) appare più frequente rispetto ad altri suoi saggi, senza che questo sminuisca la centralità del ruolo rivestito dal magistero di Jacques Lacan. In particolare, nel Trauma del fuoco la nozione lacaniana di lalangue, o lalingua, risulta dirimente per consentire l’accesso a una dimensione ancestrale del linguaggio. Questa, che è la vera lingua comune agli esseri umani, è anche la lingua madre del lutto e della nostalgia, a voce silenziosa che dal dramma della separazione conduce verso l’attesa di qualcosa che, pur non essendo ancora avvenuto, ha nel passato la sua motivazione più autentica. Sono motivi fittamente collegati, questi della perdita e dell’attesa. Nella Luce delle stelle morte Recalcati li esamina seguendo le tracce di un “resto” che è, nello stesso tempo, la materia su cui si concentra il “lavoro del lutto” e il tratto costitutivo dell’opera di Parmiggiani, abitata dagli spettri della polvere e della penombra, ma anche dalla promessa che «non tutto è destinato alla morte».

Si innesta qui il concetto di eredità, che è forse l’elemento centrale della riflessione di Recalcati fin dai tempi del fortunato Il complesso di Telemaco (2013). Buon erede, pertanto, è chi non si sottrae alla brutalità della sofferenza, ma fa in modo di non esserne travolto, così da restituire senso a vitalità a un “resto” altrimenti condannato a rimanere inerte. Lo dimostra con delicata evidenza la pagina finale della novella Lutto, edita in Italia dal Saggiatore nella versione di Ilide Carmignani (pagine 120, euro 19), dove lo scrittore guatemalteco Eduardo Halfon racconta di aver avvertito «una sensazione nel petto che somigliava molto all’euforia, un’euforia che somigliava molto al dolore». Questo sente dentro di sé il dolente nel momento in cui diventa un erede.

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