mercoledì 28 gennaio 2015
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«Forse, meno siamo consapevoli di noi stessi come monaci, più abbiamo possibilità di essere autentici monaci». Così Thomas Merton scriveva al benedettino Peter Minard nel gennaio 1965. L’autore del best-seller La montagna delle sette balze, che aveva affascinato milioni di lettori in tutto il mondo fornendo «una sorta di stereotipo del contemplativo che fugge il mondo», in realtà da anni si stava interrogando su cosa significasse essere monaci in una «era post-cristiana». L’11 novembre del 1961, mentre tutta la Chiesa cattolica era attraversata dalla vivacità inattesa della preparazione del concilio, Merton così scriveva a papa Giovanni: «Solo ora inizia negli Stati Uniti un piccolissimo movimento per la pace che riunisce protestanti e cattolici. Cerco di prendere parte a questo movimento come posso, qui nel chiostro, con le mie preghiere e i miei scritti, e con i colloqui con quanti vengono qui». Chi scrive è il maestro dei novizi che insegna a capire la radicalità profetica dei padri del deserto, scampati al naufragio del mondo e impegnati a salvare i loro compagni di navigazione; è il monaco che, in virtù del voto di obbedienza, accetta di non pubblicare i propri scritti sulla pace per non svuotarli di credibilità e autorevolezza, e si limita farli circolare solo in pochi esemplari ciclostilati; è il trappista che, all’uscita dell’enciclica giovannea Pacem in terris, osserverà come le parole di papa Giovanni, a differenza delle sue così simili, avessero avuto la fortuna di non dover sottostare alla censura dei superiori... Questa incessante ricerca di autenticità, questa ripresa delle parole degli anziani secondo cui «è monaco colui che ogni giorno si chiede chi è il monaco» traspare fin dai corsi che come maestro dei novizi Merton terrà dal 1955 al 1965. E troverà una sintesi densissima in una delle ultime conferenze pronunciate durante il viaggio in estremo oriente quando, ormai dedito alla vita eremitica, accosterà il monaco ad altre figure "marginali" della società: i poeti, gli hippies, tutte le persone "inutili" di cui il mondo potrebbe benissimo fare a meno, a scapito però del gusto della vita, della ricchezza della gratuità, della leggerezza propria della libertà interiore. Il monachesimo di Thomas Merton è un autentico "vivere alternativo", una vita semplificata, ricondotta all’essenziale, una "scuola di carità" (così si intitola il volume della sua corrispondenza con gli interlocutori del mondo monastico) capace di testimoniare agli altri quella misericordia e compassione sperimentate in prima persona. Paradossalmente, più il cuore di Merton si dilata ad abbracciare il mondo intero, più si fa impellente il desiderio di vivere nella solitudine dell’eremo: le mura delle clausura, infatti, sono fatte per custodire, non per soffocare l’amore cosmico. Se invece divengono elemento di separazione dal fratello, allora vanno superate: abbattendole o scavalcandole, come ha fatto Merton con i suoi scritti, oppure scavando in profondità, come ha saputo fare grazie alla sua vita di intensa preghiera. «La mia voce è quella di un uomo che si interroga, che, come tutti i suoi fratelli, lotta per fronteggiare un’esistenza agitata, sconcertante, massacrante, appassionante, deludente, confusa». È questa la voce cui il monachesimo ha saputo dare il timbro e la profondità più adeguate per parlare ancora oggi al cuore di tanti uomini e donne. È questo il dono fatto dal monaco Merton all’umanità che ha saputo amare con cuore unificato.
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