Hans Blumenberg in Naufragio con spettatore descrive la metafora di una civiltà, quella occidentale, che nel corso dei millenni ha visto uomini e donne incerti tra «coinvolgimento e distacco» (per usare un’espressione nota scelta da un altro grande pensatore, Norbert Elias, per definire l’atteggiamento dell’uomo dinanzi agli eventi). Blumenberg parte dal proemio al secondo libro del De rerum natura di Lucrezio, che vede un uomo sulla terraferma assistere impassibile al naufragio di una nave: il saggio, vuole dirci il poeta epicureo, è imperturbabile, non si fa scalfire da quanto accade, pur tragico che sia. A tale visione si contrappone quella di Pascal, per il quale il filosofo non può restare fermo sulla riva ad assistere passivamente al naufragio, che sia di una nave o di un’intera civiltà. «Vous êtes embarqués», scrive il mistico francese. Questo il senso della scommessa cui ci invita: chi assiste allo spettacolo della vita senza divenirne partecipe, accontentandosi di contemplare le rovine della storia, si perde. In epoca di naufragi sempre più frequenti che accadono nel nostro mar Mediterraneo, il discorso si ripropone rilanciando la questione dell’empatia.
Davanti a queste tragedie, così come alle immagini di guerra o di bambini che muoiono di fame, quali sentimenti proviamo? Estraneità, lontananza, disinteresse, atarassia a volte prevalgono, anche perché ormai ci siamo assuefatti; altre volte, se restiamo particolarmente colpiti, siamo presi da simpatia, partecipazione, solidarietà, compassione. Ebbene, tutto questo ha a che fare con l’empatia, ma non la rappresenta appieno. Negli ultimi tempi c’è stata un’enfasi eccessiva sulla parola “empatia”: l’ex economista ora nei panni di filosofo Jeremy Rifkin ha parlato di “empatia globa-le”, intendendo la necessità di una svolta dinanzi alla minaccia di una catastrofe ecologica e all’aumento dell’interconnessione tecnologica. Perfino il patron di Facebook Zuckerberg ha lanciato lo slogan «Connettetevi! », un appello ovviamente tutt’altro che disinteressato ma ispirato proprio all’empatia. A sgombrare il campo dagli equivoci arriva ora in libreria il saggio di una filosofa, Laura Boella, che allo studio dell’empatia ha dedicato diversi volumi, ben prima che diventasse una moda. Il libro ha per titolo Empatie. L’esperienza empatica nella società del conflitto ed è pubblicato da Cortina (Pagine 212. Euro 13,00). Per la docente di Filosofia morale all’Università Statale di Milano, autrice in passato di studi rilevanti su figure femminili nell’ambito del pensiero e della letteratura (da Simone Weil a Cristina Campo, da Etty Hillesum a Edith Stein), l’empatia «non è un sentimento di partecipazione o di condivisione, né corrisponde alla capacità innata di leggere la mente dell’altro». Essa è «l’atto attraverso il quale ognuno di noi fa esperienza diretta e immediata dell’esistenza di altri individui».
In poche parole, è una scoperta dell’altro non in termini generici, ma la presenza incarnata e sperimentata sensibilmente di un altro essere umano. Quando si parla di empatia, entrano in gioco i sensi e la ragione, noi «sentiamo e vediamo» l’altro, che viene sottratto dalla massa anonima della metropolitana o dei follower. L’enfasi con cui filosofi e scienziati, soprattutto dopo la scoperta dei neuroni specchio, parlano di empatia, fa di essa un sentimento generico che lascia il tempo che trova. I neuroscienziati e gli etologi in larga maggioranza affermano che siamo fatti per connetterci con le altre menti e che il senso di altruismo e solidarietà è destinato a svilupparsi anche grazie ai social network: in realtà non ne siamo così sicuri. Il neuropsichiatra Paul Bloom in un articolo sul New Yorker rigetta l’idea che l’empatia sia una panacea universale. I dati che ha raccolto attestano che ciascuno di noi sceglie di mobilitarsi dinanzi a una vittima se essa è una sola ed è identificabile; se il numero di persone in difficoltà aumenta e siamo messi di fronte alla dura realtà dei bimbi denutriti in Africa, la motivazione ad agire diminuisce e siamo più portati alla rassegnazione.
Proprio l’interconnessione ci rende più indifferenti? Il rischio che l’empatia diventi una moda che può passare, o comunque un’espressione riferita al puro desiderio di fare del bene, perciò riduttiva e altalenante, lo dimostra il recente successo in libreria di volumi come L’età della rabbia di Pankai Mishra, che pone al centro il disordine mondiale, o come l’ultimo della filosofa americana Martha Nussbaum dedicato all’ira e al risentimento. Ci aiuta a capire meglio il vero senso dell’empatia un ritorno alle origini, vale a dire una rilettura di Edith Stein, che fra i primi ne ha formulato una teoria. La filosofa allieva di Husserl fa l’esempio dell’incontro con un amico: il basso tono di voce e il volto arrossato sono il segnale della sua sofferenza. Vedere l’atteggiamento triste di questa persona, presente in carne ed ossa, è innanzitutto un’esperienza originaria, un «vedere in prima persona». Ma perché questo fenomeno non si limiti a un approccio, all’osservare una faccia triste e a rispondere con un sentimento analogo, occorre un passo in più: esplorare il mondo dell’altro, ricostruire la sua storia e determinare la causa del suo dolore, essere insomma “presi dentro” , trascinati non solo da ciò che si vede e si sente, ma da ciò che l’altro sta vivendo.
«L’altro – scrive Boella – è un centro di esperienza autonomo e differente rispetto al mio e come tale irrompe nella mia esperienza. L’empatia dunque è il contrario dell’identificazione o appropriazione dell’emozione o intenzione altrui. Essa consiste invece nell’ingresso nel mio orizzonte vitale, emotivo e cognitivo, di ciò che è vissuto dall’altro». Come si intuisce, non è per niente facile definire davvero l’empatia e negli ultimi tempi persino tra filosofi, psicologi e neuroscienziati non c’è consenso. Più che la scienza e la tecnologia, la letteratura e il cinema ci vengono in soccorso. Boella cita a mo’ di esempio il libro A voce alta, da cui è stato tratto il film The reader con una Kate Winslet degna vincitrice dell’Oscar nel 2009. È la storia di una kapò nazista analfabeta che nel lager obbligava le detenute a leggerle dei libri, per poi punirle spietatamente. Dopo la guerra, chiede al suo giovane amante di fare altrettanto, finché il suo passato non torna alla luce, è arrestata e condannata all’ergastolo. Dopo il processo, Hanna in galera riceve da Michael cassette che le permettono di imparare a leggere: un modo per porsi davanti alle sue colpe e finalmente riconoscerle?
Ma un’altra pellicola si può citare, Le vite degli altri, cui nel 2006 è stato attribuito l’Oscar come miglior film straniero. Racconta la reazione di una spia dei servizi segreti della Germania Est che controlla alcuni oppositori al regime comunista e a poco a poco entra in sintonia con loro, sino a condividere la loro sofferenza e ad aiutarli, senza che loro lo sappiano. Sia come sia, davanti a queste due storie scatta anche in noi spettatori un processo di empatia: ci immedesimiamo nei personaggi anche se talora ci fanno orrore. Accade più o meno in noi quanto scrive David Foster Wallace, uno dei più importanti scrittori americani del dopoguerra: «Nel mondo reale tutti soffriamo da soli. La vera empatia è impossibile. Ma se un’opera letteraria ci permette, grazie all’immaginazione, di identificarci con il dolore dei personaggi, allora, forse, sarà più facile pensare che altri possano identificarsi con il nostro».