sabato 6 gennaio 2024
Parla l'urbanista del Politecnico di Milano: «Le città sono schiave della speculazione e della standardizzazione. Serve una nuova dimensione collettiva, perché tornino abitabili»
Elena Granata

Elena Granata - Imagoeconomica

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«Abbiamo costruito luoghi dove dovremmo poter trovare pace e invece sono pieni di confusione, come quegli ospedali dove la luce è troppa e il rumore pure, abbiamo rimosso ogni spazio di privacy e di contatto con la natura...»: lo nota Elena Granata nel libro Il senso delle donne per la città (Einaudi, pagine 186, euro 17,00). Che negli ultimi settant’anni gli edifici abbiano dilagato affastellati, generando ambienti a volte ostili in una sorta di diffuso inquinamento architettonico è lamentato da tutti. Ma Granata, urbanista del Politecnico di Milano nonché vicepresidente del Comitato scientifico delle Settimane Sociali dei cattolici italiani, vede aprirsi nuove prospettive: «Sono abituata a pensare in modo positivo. Oggi è cresciuta la sensibilità per l’ambiente – pur nel mare delle banalità e del “greenwashing” – così anche nel campo della progettazione si aprono nuove opportunità per le donne. Queste si sono sempre dedicate alla cura delle persone, all’accoglienza, agli spazi dell’intimità: cose che, un tempo considerate marginali, sono divenute di importanza strategica. Il mio lavoro è inteso a promuovere un nuovo impegno civile nell’architettura e nell’urbanistica. Essendo provato che l’ambiente influisce sullo stato d’animo e sulla salute delle persone, le città vanno riviste perché diventino confortevoli come le case. Ma ancora le troviamo piene di divieti: progettate per escludere più che per includere. Quando invece bisogna ritrovare il senso del vivere insieme».

Lo spazio infatti è composto dalle relazioni tra le persone, e tra i loro corpi e l’ambiente fisico che li attornia...

«Anche se non ce ne rendiamo conto, tutti i nostri sensi sono coinvolti. Non solo la vista, che è considerata prevalente: lo spazio ci entra nei polmoni, è circonfuso di aromi, abitato da suoni e rumori, ci dà sensazioni tattili... Si pensi solo alla differenza che si prova nel camminare su un marciapiedi asfaltato o su una superficie acciottolata, o nel trovarsi in una piazza con alberi frondosi e panchine che consentano di godere la frescura d’estate, piuttosto che in spiazzi desolati o in vie anguste piene di auto. Lo spazio è immersivo e ci riguarda tutti. E noi non siamo standardizzabili. Si pensi per esempio alle difficoltà in cui si imbatte una donna incinta: salire su un autobus, passare per una porta stretta, trovare sedili scomodi. Ma di cose come queste, per quanto sia noto che bisognerebbe favorire la maternità, non si parla».

Lo High Line Park, a New York

Lo High Line Park, a New York - WikiCommons

Non vi sono architette che hanno progettato con maggiore attenzione?

«Sono poche. Nel libro ne cito diverse, ma soprattutto mi riferisco a quelle che hanno in vario modo contribuito e ripensare la città. Un esempio: Jane Jacobs, che non era architetta ma scrittrice e col libro Vita e morte delle grandi città, pubblicato nel 1961, ha avuto un ruolo fondamentale nel denunciare il modello di pianificazione di tipo razionalista e la gestione urbana autoritaria, schiava della speculazione edilizia: ha ripensato la città a partire dall’osservazione delle strade, cogliendo come valore positivo la ricchezza di relazioni e culture che vi si intrecciavano nella New York di quegli anni. Ha messo gli “occhi sulla strada” e ha inventato un nuovo linguaggio. Anche questo è fare architettura: rivendico la preminenza del pensiero sulle opere costruite. E l’importanza della capacità, tipica delle donne, di lavorare assieme e di esprimere la dimensione collettiva: quell’interesse per la comunità che la visione meramente economicista ignora».

Che tende a prevalere tra investitori e committenti…

«L’architettura deve rivendicare la propria autonomia dalla speculazione immobiliare e tornare a innamorarsi della propria funzione sociale. Penso all’importanza del piano Cerdá per Barcellona: ha favorito la mobilità ma allo stesso tempo ha trovato spazi adatti alle persone. Certo, si era a metà dell’Ottocento e si progettava su terreni liberi. Oggi dobbiamo trasformare tessuti urbani esistenti e rigenerare città affollate di edifici: un’opera ben più complessa. Ma c’è chi s’è incamminato nella direzione giusta: come a Parigi, dove la mobilità dolce è favorita rispetto all’invadenza delle automobili e dove si prevede che nel giro si qualche anno la Senna tornerà a essere balneabile. Non a caso il sindaco è una donna, Anne Hidalgo».

Le donne per tradizione si sono occupate dei bambini, della casa, dei malati: attività legate a una sensibilità non sfigurata dall’urgenza della performance che spinge alla smania dell’apparire, allo sgomitare per competere. Come evitare sia stravolto anche il loro agire quando giungono in posizioni socialmente rilevanti?

«Questo è il rischio, ed è una sfida. Perché il sistema, sinora gestito da uomini, prevale sulla persona. Ma la freschezza delle donne, il loro arrivare da outsider le mette nella condizione di poter rivoluzionarlo. Ci vuole coraggio: per prendere la parola, e mantenersi coerenti alla missione di rendere accoglienti gli spazi, civile la società, abitabile la città. Come si fa con la propria casa».

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