domenica 25 giugno 2017
Parla l'attivista copto Mina Thabet «I gruppi minoritari, non solo i cristiani, sopportano le discriminazioni più pesanti anche da parte di ampi settori della società»
L'attivista copto Mina Thabet: «Noi, perseguitati in Egitto»
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Ci sarà una ragione se il calendario copto segue l’“Era dei martiri”, il cui anno zero coincide con il 284 ossia l’inizio del regno dell’imperatore Diocleziano, responsabile della più sanguinosa persecuzione anticristiana dell’antichità. Il martirio è parte integrante della storia di questo popolo, che rappresenta circa il 10% dei 92 milioni di egiziani. Oggi tuttavia i cristiani d’Egitto, sul crinale delle tormentate vicende del loro Paese, attraversano uno dei momenti più critici che la comunità ricordi. Stretti tra due fuochi, il giro di vite illiberale del regime e un attacco senza precedenti da parte del fondamentalismo di matrice islamica, rischiano di essere ridotti a minoranza silenziosa, a vittime impotenti di una violenza che, in Egitto come altrove, cerca bersagli stereotipati e capri espiatori.

Proprio quello che Mina Thabet, e tanti altri attivisti come lui, non intendono permettere.

Nato nel 1990 ad Assiut, Mina progettava di diventare ingegnere. Ma poi la storia passò sotto i suoi occhi: le proteste di piazza Tahrir nel 2011, la destituzione di Hosni Mubarak, finalmente una prospettiva di protagonismo per la nuova generazione di egiziani. «In me si risvegliò una speranza: pensai che avevamo l’opportunità di cambiare le cose», racconta. «Dopo l’attacco delle forze armate a una manifestazione contro la demolizione di una chiesa, in cui rimasero uccisi 28 dimostranti, con un gruppo di giovani cristiani fondammo la Maspero Youth Union».

Ma la situazione si complicò. Gli episodi di violenza settaria si moltiplicarono in tutto il Paese, raggiungendo un punto di non ritorno nell’estate del 2013, quando il presidente Morsi, espressione della Fratellanza musulmana, fu destituito per mano dell’esercito. Seguì l’elezione di Al Sisi e la svolta autoritaria che, in un Paese già strangolato dalla povertà e dall’inflazione alle stelle, sta togliendo il respiro a ogni forma di dissenso. Thabet, che nel frattempo è diventato uno degli attivisti più noti d’Egitto, responsabile del Programma per le minoranze alla Commissione egiziana per i diritti e le libertà (la stessa che assiste legalmente la famiglia del ricercatore italiano Giulio Regeni assassinato nel 2016), non è sfuggito all’ondata di repressione. L’anno scorso, la polizia ha fatto irruzione nel suo appartamento del Cairo e lo ha trascinato in prigione, dove il giovane è rimasto per un mese, subendo pestaggi e vessazioni. Liberato su cauzione, attende ancora il giudizio per capi d’imputazione legati al terrorismo – una categoria sotto cui il governo infila pretestuosamente qualunque azione critica verso il suo operato – per i quali è prevista anche la pena di morte.

Nonostante tutto, esiste un risveglio dell’attivismo copto?
«Sì, e possiamo identificarne anche i due punti di svolta fondamentali. Il primo è stato nel 2011, dopo alcuni attacchi contro i cristiani e in particolare la bomba alla chiesa di Alessandria che causò 28 vittime. Per la prima volta i copti scesero in piazza per gridare la loro rabbia e rivendicare i propri diritti. Se fino ad allora l’unica voce della comunità era stata quella di papa Shenouda, finalmente i giovani si ritagliarono uno spazio per parlare in prima persona. C’è stato poi il colpo di Stato del 2013, che ha determinato pesanti restrizioni alla libertà di espressione e di protesta. Anche in quel caso, noi cristiani ci siamo uniti ai movimenti della società civile che chiedevano il rispetto dei diritti umani e abbiamo portato avanti istanze forti e decise, pagandone purtroppo il prezzo. Oggi in Egitto nessuno è libero di manifestare, ma cerchiamo di continuare le nostre lotte in tutte le sedi civili».

Teme che i recenti, ripetuti episodi di violenza settaria possano spingere i copti a cercare la protezione dello Stato, chiudendo un occhio sui diritti umani?
«Ai tempi di Mubarak la relazione del regime con il patriarca Shenouda era strettissima e anche oggi, sebbene papa Tawadros abbia un atteggiamento più critico, il legame della Chiesa copta con il governo resta saldo. Ma il fatto che la gerarchia sia tradizionalmente il rappresentante politico dell’intera comunità è una anomalia: anche la base deve potersi esprimere in prima persona, il governo deve interagire con gli intellettuali, i giovani, gli esponenti politici copti, perché noi siamo cittadini a tutti gli effetti».

Qual è il contributo politico e culturale che i copti stanno offrendo allo sviluppo dell’Egitto?
«Stiamo partecipando con decisione al tentativo di transizione democratica del Paese. In ogni città abbiamo attivisti, ricercatori, giornalisti impegnati a promuovere valori chiave per la società, dai diritti di tutte le minoranze alla libertà di religione, dalla giustizia sociale alla lotta alle mutilazioni genitali femminili. Oggi le istanze dei cristiani sono finalmente entrate nell’agenda politica – pensiamo al dibattito sulla legge per la costruzione delle chiese – e anche se soffriamo non siamo più invisibili».

Lei sta pagando in prima persona il suo attivismo: teme di più l’estremismo o la violenza di Stato?
«È vero, sto rischiando molto, ma d’altra parte oggi in Egitto nessuno è più al sicuro. Ho paura del regime perché agisce in modo irrazionale e persino folle, e dei fondamentalisti islamici che attaccano i cristiani incolpandoli di sostenere il governo “golpista”. Sono due forme di pazzia che temo allo sesso modo».

Perché ha scelto di concentrare il suo impegno sulla difesa delle minoranze?
«Quasi quotidianamente la nostra commissione stila rapporti che documentano il giro di vite sui movimenti politici, le ong, i mass media... la situazione è molto grave per tutti. Ma è un dato di fatto che i gruppi minoritari, non solo i cristiani ma anche sciiti, ebrei, bahai, sono quelli che sopportano le forme di discriminazione più pesanti anche da parte di ampi settori della società: isolamento, violenza, attacchi alla libertà religiosa».

Come è possibile contrastare il terrorismo nel suo Paese?
«Serve una strategia complessiva, non si può combatterlo solo con le armi e con l’intelligence. Per neutralizzare l’ideologia oscurantista non si può prescindere dall’istruzione e dalla promozione di una cultura basata sulla coesistenza e la libertà di coscienza. Ma servono anche riforme economiche, un sistema giudiziario equo e giustizia sociale. E poi bisogna intervenire contro i leader religiosi che propagandano idee estremiste. In Egitto non ci deve essere spazio per chi predica l’odio».

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