giovedì 1 dicembre 2022
Abbeveriamoci alla fonte del Concilio così da osare l’impossibile: vivere la pace e l’unità, anche in tempi di divisione e di guerra, credendo che nessuno potrà togliercela
Un momento dell'incontro ecumenico di Assisi del 1986

Un momento dell'incontro ecumenico di Assisi del 1986 - Ansa

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Proponiamo un estratto della lectio magistralis “Chiese sorelle, popoli fratelli” che lo storico Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha pronunciato lunedì alla Facoltà Teologica Pugliese, a Bari, in occasione del conferimento della Laurea honoris causa in Teologia.

La storia del nostro secolo globale non è stata, per così dire, ecumenica: basta pensare alla teoria dello scontro di civiltà, in cui la religione conta assai, che sembra confermata dai tragici attentati dell’11 settembre 2001; o alla riabilitazione della guerra come strumento di soluzione dei conflitti, dopo la scomparsa di tanti testimoni dell’orrore della Shoah e del secondo conflitto mondiale, che ci ricordavano l’orrore della guerra. Il nostro non è un presente pacifico, anzi proietta antichi muri, vecchie passioni nazionaliste, sullo scenario di un mondo unificato finanziariamente e come comunicazioni, con la possibilità di usare armamenti distruttivi e sofisticati e un reticolo di informazioni, che veicola odio e pregiudizio. Questa storia si è rovesciata anche sui rapporti tra cristiani, perché parte della storia e non avulsi da essa, come non lo è la Chiesa. La ricerca dell’unità dei cristiani non è una moda o un debito pagato a uno spirito cosmopolita politically correct. Ma si radica in un decisivo comandamento del Signore, che abbiamo disatteso troppo a lungo, mentre predicavamo l’osservanza di tanti altri comandamenti. Qualche volta penso alle parole di Gesù: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’aneto e del comino, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legga: la giustizia, la misericordia e la fedeltà» (Mt 23,23). Non perché si ha un’idea utopica dell’unità, quanto perché bisogna vivere le differenze e anche gli scontri nel quadro di quella che è la pace e l’unità che il Signore ha lasciato ai suoi discepoli. La guarigione delle divisioni si fa, cominciando subito a camminare nella direzione indicata dal Maestro al funzionario reale che lo pregava: «Va’ tuo figlio vive! Quell’uomo credette alla parola che gli aveva detto Gesù e si mise in cammino». La trascuratezza della nota dell’unità ha consentito, nei secoli, che il cristiano non sia più il frutto dell’unità con la sacralizzazione della divisione. Oggi, per l’oscuramento dell’unità come caratteristica fondamentale del cristianesimo, la divisione non è scandalo: legittima quel movimento (ben più di mezzo miliardo di persone) neoevangelico o neopentecostale, che spesso, - specie in alcuni paesi - assume il carattere frammentario e competitivo del mercato delle religioni. Peraltro oggi, all’interno della stessa Chiesa cattolica, si manifesta un’impressionante polarizzazione, quasi da separati in casa, specie in alcuni paesi. È il processo di frammentazione del nostro mondo, che riconduce tutto all’io, quel cambiamento climatico culturale contemporaneo - dice il rabbino Sacks - che ha portato dal “noi” alla società “a misura dell’io”. La carenza dell’unità ci riporta al tema della pace: le divisioni cristiane sono connesse a quelle tra i popoli. Non possiamo però lasciarci vincere dai processi divisivi. La ricerca non è un’opportunità, ma ananke, destino, volontà del Signore. I semi di unità sono ovunque nelle Chiese. Me ne accorgo in tanti incontri. Oggi, tra cristiani di varie confessioni, si parla da fratelli. Talvolta i semi fioriscono in eventi, che suggeriscono visioni. Ricordo l’incontro di Assisi, voluto da Giovanni Paolo II. Nell’icona di Assisi 1986, ci sono intuizioni semplici ma basilari per i rapporti ecumenici, il dialogo interreligioso, l’apporto delle religioni alla pace. Il dialogo interreligioso trova nella pace e nella dimensione della preghiera un approdo di rilievo, che lo libera dal rischio di imitare quello ecumenico. D’altra parte, proprio nell’immagine di Assisi, gravida di significato teologico ma non molto scandagliata, si vede quanto poco divida i cristiani. Quanto è poco quello che divide i cristiani! – mi disse una donna ad Assisi vedendoli tra buddisti, ebrei, musulmani. I cristiani, divisi, di fronte a un mondo pluralista. È il caso dei cristiani in Medio Oriente, a confronto con l’islam maggioritario. Quanto poco li divide e quanto li unisce! La Comunità di Sant’Egidio ha voluto che il cammino di Assisi continuasse. Ogni anno, tappe in varie città del mondo: la preghiera comune e attorno ad essa un fitto intreccio di dialogo. Non dimentico, nel 1990, l’incontro a Bari, “Un mare di pace tra Oriente e Occidente”, dopo l’invasione di Saddam Hussein del Kuwait. Vorrei ricordare un incontro, promosso da Sant’Egidio, a Bucarest nel 1998. Tra l’altro una riunione panortodossa di alto profilo con patriarchi e primati, nel quadro nell’incontro tra cristiani e con le altre religioni, come notò il patriarca Hazim. Sull’incontro aleggiava la ferita della vicenda tra ortodossi e greco-cattolici in Romania e il dibattito sulla restituzione delle chiese, entrate in possesso del patriarcato durante il regime comunista. Non si è trattato di una trattativa, ma di un incontro alla presenza del popolo. Fin dal primo giorno, quando il patriarca Teoctist ha presenziato alla liturgia latina, si è visto che si passava da un’accoglienza rituale a un’accoglienza partecipe. Il popolo ha avuto una sua funzione, perché ha manifestato con visibile chiarezza la volontà di un accordo. Si è visto con l’accoglienza entusiasta ai gesti di intesa. Soprattutto nella manifestazione finale interreligiosa alla presenza di varie migliaia di persone. Il popolo di Dio è stato attore di questo processo di avvicinamento. Diceva il patriarca Atenagora: «I teologi hanno la loro parola da dire. Ma il popolo pure ha la sua parola da dire. C’è qualcosa di profondamente giusto nell’istinto del popolo di Dio». L’incontro di Bucarest ha aperto alla visita di Giovanni Paolo II nel 1999, in Romania, prima in un paese ortodosso. Ricordo il sogno di Wojtyla di poter fare la comunione alla liturgia ortodossa con quell’istinto spirituale che egli aveva, ma anche il popolo che, dopo la liturgia, gridava «Unitate, Unitate!». Lo spirito di Assisi è una visione del mondo globale, quasi della globalizzazione dello spirito attraverso la dimensione della preghiera e del dialogo, su cui lavorare in questo nostro presente non ecumenico. Non posso dimenticare, in un tempo di fratture, la preghiera a Bari del 2018 dei primati cristiani per il Medio Oriente, voluta da papa Francesco. Succedeva all’imponente pellegrinaggio, nel 2017, delle reliquie di San Nicola in Russia, che hanno visto sfilare più di due milioni di russi in venerazione. Ho avuto una qualche parte nella vicenda dell’incontro di Bari e ricordo la passione di papa Francesco nell’incontro, con una discussione attorno a un tavolo nella basilica di San Nicola, un evento da primo millennio. Un grande segno di speranza, che mi farebbe parlare di spirito di Bari, purtroppo non molto ripreso in questa stagione difficile, ma un segno su cui meditare e lavorare. In questo tempo, forse, bisogna moltiplicare l’audacia dei soggetti ecclesiali che prendono l’iniziativa di una via ecumenica a partire dal comandamento del Signore, favorendo la rinascita della passione per l’incontro, la convinzione che quando preghiamo insieme, crollano i disegni del divisore come diceva Ignazio di Antiochia. Chiese locali, singoli, realtà ecclesiali… tutti dobbiamo tornare a sentire lo scandalo della divisione e la necessità di lavorare per unire. Questo nostro mondo che si frammenta ha bisogno di una profezia di unità, che è una visione alternativa ai rapporti di forza, di potere, di interessi economici: tale è l’amore e la fraternità tra i cristiani, che abita e avvicina i popoli. La fraternità tra le Chiese deve creare una storia, un clima, una realtà, quella “civiltà ecumenica” di cui parla il patriarca Bartolomeo, cioè la civiltà del vivere insieme. Il cardinale König, che aveva superato il muro del mondo comunista e vissuto l’avvicinamento tra Chiese, dopo la chiusura del Concilio, parlava dell’ecumenismo come uno dei fatti maggiori del Vaticano II: «L’azione dello Spirito fu qui ben visibile. Ne traiamo come conseguenza, da ciò, che problemi apparentemente insolubili, trovano una via di uscita, quando vengono affrontati con fiducia, con retta intenzione e con illimitata confidenza nella volontà di Dio… Nulla è impossibile, infatti, per Iddio ». È la fonte del Concilio cui abbeverarsi con sapienza e ingenuo entusiasmo, così che crediamo l’impossibile: vivere la pace e l’unità, anche in tempi di divisione e di guerra, credendo che nessuno potrà togliercela.

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