domenica 13 ottobre 2019
A Vicenza la versione dell’irlandese Marina Carr. Tra il sangue e l’odio si fa strada un lume di speranza
“Ecuba” di Marina Carr all’Olimpico di Vicenza (foto di Roberto De Biasio)

“Ecuba” di Marina Carr all’Olimpico di Vicenza (foto di Roberto De Biasio)

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«Che cosa è Ecuba per lui, o lui per Ecuba?». Lei, Ecuba, è una delle grande donne tragiche del mito greco, nell’Iliade e poi nel teatro di Euripide. Uno dei personaggi più disperatamente, profondamente tragici. Ma la furibonda e divampante presenza, nei poemi omerici e nel teatro di tanti personaggi, rischia di offuscare il suo nome rispetto a altri più altisonanti: Elena, Achille, Ettore, Cassandra, Agamennone, Ulisse... Ma con un colpo di genio Shakespeare la rende il personaggio più famoso di quell’epopea: agli attori ambulanti giunti a corte Amleto chiede una prova; il capocomico inizia interpretando la tragedia di Ecuba, e piange, travolto, piange disperatamente. Amleto si domanda, sconvolto: come dovrei sentire io la morte di mio padre, che è avvenuta realmente in questo castello? Se quell’attore si immedesima tanto fino a piangere e far piangere in quella di Ecuba, personaggio lontano, di cui ha letto sui libri, e che non ha mai conosciuto? Bene, possiamo sentire in pieno qui la potenza del teatro che fa vivi i morti e i mai esistiti all’anagrafe, e ci fa singhiozzare per la loro morte accaduta nel mito, poi sulle pagine, ma ora viva pulsante sulla scena. Ecuba, dell’irlandese Marina Carr, regia di Andrea Chiodi, in scena fino a oggi al Teatro Olimpico di Vicenza, è un esempio di teatro pieno, quello che sconvolge Amleto e che ora fa tremare lo spettatore.

Ecuba è Elisabetta Pozzi una delle massime interpreti contemporanee dei personaggi della tragedia, le corrisponde un Alfonso Veneroso che sta alla sua altezza, nel ruolo di Agamennone, e tutti gli attori, diretti dalla regia lucidissima, freddamente ardente di Andrea Chiodi, recitano a come ci si aspetta dal teatro autentico. In un dramma anche nella struttura dialogica formidabile: abituato alle rivisitazioni, riscritture, reinterpretazioni di tragici, del Bardo, molto spesso pretestuose, rassegnato a una drammaturgia ancillare che prende qua e là dai classici per attualizzarli, o a quella che i classici manco li considera, nascendo (e svanendo) nell’attualità e basta, resto colpito da questa pièce che è un vero testo autonomo, un dramma forte e compiuto, che vede attori dotati di pathos e lucidità al suo servizio.

Ecuba è un dramma ispirato alla tragedia della regina di Troia, moglie del sovrano Priamo del quale, nella disfatta della città, le giunge solo la testa mozzata, senza nemmeno il corpo da seppellire. La storia omerica e poi la tragedia narrano della disperazione di Ecuba che oltre allo strazio del marito vede massacrati i figli, e si trova sola con la figlia più giovane, Polissena, e Cassandra, la bellissima veggente che tutto aveva previsto. Una carneficina, Agamennone esaltato da violenza, sesso, sete di sangue e potere, e da oscuri momenti d’inconfessato rimorso (grande scrittura: un senso di dubbio cupo sul senso della guerra e di tutto), bambini fatti a pezzi, un bagno di sangue sulla spiaggia ove i vincitori si accingono a salpare con le nobili di Troia violentate rese schiave e concubine, i loro figli fatti a pezzi, anche i bambini: in guerra non esistono bambini ma solo nemici, grugnisce Agamennone, il capo degli Achei che per propiziare la spedizione aveva sacrificato, sgozzandola, la figlia Ifigenia. E inoltre, aggiunge, i bambini crescono in fretta: meglio farli fuori adesso che affrontarli tra qualche anno come capi delle navi nemiche.

È un dramma, questo, di grande intensità, ove il sangue, le ossa dei massacrati dai Greci vincitori che non rispettano le regole di ogni guerra, stuprando nobili fatte vedove dopo averne castrato i mariti ammazzati, e avere strangolato i bambini, non ha nulla di antimitico rispetto al mito di fondo. Non è insomma un rovesciamento ideologico, demitizzante, un abbassamento della materia a corrività, o cedimento all’effettaccio e al grottesco: è uno sviluppo della linea tragica che la poesia occidentale conosce riguardo allo scempio di Troia: I Sepolcri di Foscolo, impregnato di grecità memoriosa e lucente, culminano con l’invocazione che sia resa giustizia al corpo di Ettore, scempiato indegnamente dal vincitore Achille. E Baudelaire inizia il suo capolavoro tra i capolavori, Il cigno, scrivendo «Penso a te, Andromaca», simbolo poi conclusivo delle nobili creature sprezzate e violate del mondo, come il cigno fuggito dal serraglio. E un grande poeta del Novecento, irlandese come l’autrice, Seamus Heaney, riprende la tragedia di Agamennone di ritorno dal trionfo, alla sua reggia, dove è accoppato dalla moglie Clitennestra, amante di Egisto. Ho tremato traducendo quei versi grondanti lacrime e sangue. Ma anche una profonda pietà. Di pietà, di amore addolorato e resistente, è pregno il modernissimo, necessario, incalzante dramma Ecubadi Marina Carr. Nella tragedia della guerra, dell’odio, della sopraffazione, ognuno, anche il peggiore, ha momenti, bagliori o brandelli di umanità. Lei li scova, e traccia una via non solo di sangue ma di angosciata e febbrile e vitale speranza.

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